“Hokuspokus”: Abracadabra, che la vita vada in scena. Al Teatro Piccinni di Bari si rinnova la magia della Compagnia Familie Flöz e del loro incantevole viaggio alla riscoperta dell’essere umano

Al Teatro Piccinni, nell’ambito della Stagione teatrale del Comune di Bari, è andato in scena lo spettacolo Hokuspokus della compagnia berlinese Familie Flöz, applaudita, ormai da anni, in 43 Paesi nel mondo.

Il loro codice narrativo resta quello del teatro di figura, con gli attori ad indossare le  inconfondibili maschere di cartapesta, ironiche e malinconiche allo stesso tempo, originali ed anche poetiche, ma questa volta gli autori introducono una novità: entrano in scena non solo i personaggi, ma anche i loro creatori, coloro che li muovono: è la bugia che convive sul palco insieme con la realtà.

La prima scena prende spunto dalla Genesi: i due protagonisti, come Adamo ed Eva, un po’ sperduti in un luogo non ben definito che fa pensare ad una natura primordiale, si scrutano timidamente, si guardano, comunicano e, scoprendo delle affinità, (tenerissima la scena in cui si accorgono che il “toc-toc” sulle loro teste dure produce lo stesso identico rumore), si prendono per mano con i cuori che battono all’unisono.

Da quel momento, la scena cambia: siamo calati in un appartamento di periferia, arredato in uno scarno stile Ikea con un divano, un tavolino e due sedie e una TV che non vediamo, ma di cui avvertiamo la presenza. Sembra il “living” di una qualsiasi famiglia media, nel quale si muovono i due coniugi che, gradualmente, mettono su una famiglia con uno, due e infine tre figli.

Si dipanano sulla scena le problematiche di una “normale” famiglia media, con i capricci dei bambini, le richieste di attenzioni, le crisi adolescenziali, di fronte a due genitori-tipo rappresentati da una madre-roccia (come lo sono molte madri) dalle grandi capacità comunicative e di mediazione con i figli ed un padre un po’ impacciato che ci prova, a volte con successo, a volte meno, con i suoi momenti di infantilismo e di stanchezza a cui seguono momenti di serio impegno familiare, e di questo incespicare per poi riprendersi, noi sorridiamo, ci sentiamo sollevati perché, in fondo, quella coppia o, se si vuole, quelle due persone, siamo noi. Quell’uomo, quella donna, quei coniugi, quelle crisi, quelle difficoltà, quelle gioie, quei problemi sono i nostri. Man mano che lo spettacolo scorre, ci dimentichiamo di avere di fronte delle maschere di cartapesta mono-espressive e quei personaggi, quasi per magia, diventano, incredibilmente, vivi. Per un tempo di 85 minuti senza interruzioni, ci “incollano” alla storia, ci fanno sorridere, riflettere, attendere gli eventi e ci fanno anche soffrire di fronte ad un evento tragico che viene rappresentato con la grazia e al tempo stesso l’incisività che caratterizza tutta la cifra stilistica della nostra Compagnia: il lutto più doloroso, il lutto di tutti i lutti.

Passiamo, così, dalle risate al silenzio. Ancora una volta, quelle maschere di cartapesta ci toccano: scotomizziamo l’idea che al posto di quei genitori potremmo esserci noi.

In questo, ci viene in aiuto la presenza degli attori, vestiti di nero, figure che noi vediamo muoversi sul palco e intorno ad esso a spostare sedie, tavoli, luci, a produrre suoni e musiche e un canto femminile di grande impatto emotivo, che fin dalle prime scene, ci culla in una dimensione che ci avvolge completamente e ci riporta dall’esterno, all’interno delle nostre coscienze.

E’ realtà? E’ finzione?

I nostri coniugi sembrano invecchiare di colpo: è il dolore che ci catapulta nella dimensione della nostra vulnerabilità. Dall’Eden alla morte è tutto possibile ed in quel “possibile” si muove la vita nelle sue infinite varianti.

Siamo noi davvero i protagonisti, gli attori del nostro destino? Oppure siamo mossi dalle figure in nero che apparentemente ci lasciano districarci sul palco della vita, ma emergendo dal buio, ogni volta a sorpresa, sono loro a muovere i fili?

Durante lo spettacolo, lo spettatore si lascia coinvolgere dalla storiella, banale se si vuole, di questa simpatica famigliola e, in fondo, si dice tra sé, che “non è nulla di speciale”.

Nulla, forse, fino a quando, ad un certo punto, le luci sulla scena si accendono all’improvviso fortissime e vengono rivolte sul pubblico, quasi ad accecarlo. Il perché di questa scelta andrebbe chiesto all’Autore, ma noi crediamo che lui ci abbia voluti coinvolgere. Crediamo che abbia voluto ricordarci, creandoci un fastidio inaspettato, che non stiamo assistendo soltanto, come spettatori, alla storia raccontata da quelle maschere di cartapesta, ma che quelle maschere rappresentano proprio noi e diventano vive e vere come non mai, perché sono riuscite (inspiegabilmente?) a farci immedesimare in esse.

Se ci pensiamo, un’impresa ardua oggi, nell’epoca del 3D, dell’intelligenza artificiale, dell’irreale che sembra reale grazie agli evolutissimi artifici della tecnologia.

E invece, la Familie Flöz ci riporta al teatro greco antico e a quello romano delle maschere, “costringendoci” ad emozionarci con “poco”, come i nostri progenitori, con l’enorme differenza che loro non avevano conosciuto il “molto”, mentre, al contrario i nostri occhi, le nostre orecchie, tutti i nostri sensi sono saturi di stimoli e suggestioni. Per questo, raggiungere i nostri cuori, saltando un’asticella posta ormai così in alto, comporta un grandissimo rischio che è, quello, appunto, di non arrivare al cuore di tutti. Ma questo è sempre possibile nell’arte e occorre metterlo in conto.

Una volta, un amico pittore, alla mia domanda su cosa fosse un “artista” per lui, mi rispose così: l’arte per me è come un giardino pieno di fiori.  Se uno riesce a piantarne uno “diverso”, con nuove forme e nuovi colori, ebbene, quello può definirsi un artista”. E’ stata una definizione che non ho mai dimenticato. Forse non condivisibile, forse scontata, ma è quella che, probabilmente, ci consente di approdare sempre a nuove forme espressive, scevri dal “pre-giudizio”, ma con la curiosità di un bambino che scorge un fiore mai visto prima.

Raffaella Cavallone

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