“BiG Dreams” are made of this: il reportage del secondo weekend del Bari International Gender Festival 2023

Un’emozione condivisa ha pervaso un pubblico, numeroso oltre ogni aspettativa, nel primo weekend del BiG, scatenando un effetto valanga che sta facendo registrare praticamente sempre sold out per le performance previste dal programma, segno che la qualità delle scelte fatte da chi, alla nona edizione, continua a mantenere e anzi, ad alzare l’asticella, di una qualità e di un dialogo col pubblico che ha dell’eccezionale nel panorama festivaliero cittadino.

BiG sta per Bari International Gender Festival, festival transfemminista di cinema, performance, musica, danza e dialoghi, diretto da Miki Gorizia e Tita Tummillo, promosso e organizzato dalla Cooperativa sociale AL.I.C.E., sostenuto dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), Regione Puglia, PACT Teatro Pubblico Pugliese a valere sul Fondo Speciale Cultura e Patrimonio Culturale L.R. 40/2016 art. 15 comma 3, Comune di Bari, Ufficio Tecnico – Tavolo Tecnico LGBTQI del Comune di Bari, Centro Antidiscriminazioni del Comune di Bari, Medihospes, Centro Antiviolenza – Assessorato al Welfare del Comune di Bari, Ambasciata Olandese e Pro Helvetia, in collaborazione con Fondazione H.E.A.R.T.H., Università degli Studi di Bari «Aldo Moro» – Dipartimento ForPsiCOm, Teatri Di Bari, Teatro Kismet e Fondazione Apulia Film Commission.

Soprattutto, il BiG, tra le varie qualità, ha quella di aprire alle persone spazi normalmente celati dietro le gabbie dell’esclusività e dell’oblio, com’è stato ad esempio per “La Frontiera”, una performance di e con Riccardo Fazi e Claudia Sorace, meglio noti come MUTA IMAGO, in collaborazione con Officina dell’Arte – APS. Fazi e Sorace hanno scelto, tra tanti luoghi del circondario di Bari, il Castello Angioino di Mola di Bari, e all’interno dei mastii di apparenza quasi brutalista ante litteram, si sono innamorati del Terrapieno, uno spazio tra le due cinte murarie, una specie di piccola oasi intimista, in cui sembrano lontani i fasti roboanti della corte.

La performance verte su un continuo gioco tra passati e futuri, prossimi, anteriori, remoti, che a loro volta trapassano i piani narrativi. Fazi e Sorace suonano muniti assieme di strumenti tradizionali ed essenziale elettronica, leggono da diari di bordo brani di tempi che furono e di tempi che saranno, di sogni di creature mitologiche eppur reali, animali fantastici e deserti lussureggianti, teorie che confermano che noi non siamo un’etichetta, e che la frontiera che ci viene imposta non esiste, perché noi per prim* non esistiamo: secondo una teoria taoista, semplicemente comprensibile, noi siamo fatt* di una cultura che è frutto della nostra educazione e della nostra esperienza, mangiamo parti di altri esseri viventi, scaturiamo da particelle derivanti dalle stelle, per questo noi non siamo mai davvero nostr*.

Questa è una scoperta balsamica, che ci dona assieme un approccio mindful alle cose, ma anche la consapevolezza di essere una parte infinitesima dell’Universo, una sensazione preziosa anche lasciando la caverna del Terrapieno.

È aperta fino a giovedì 16 novembre, all’ex Tesoreria di Palazzo di Città (nell’atrio da cui si accede anche al Piccinni e al Bar del Comune), dalle 11 alle 19 (ingresso gratuito e riservato a un pubblico maggiore di 16 anni), la mostra di Regina José Galindo, a cura di Pamela Diamante. Galindo, attivista guatemalteca, ha dedicato al BiG un talk alla Biblioteca De Gemmis e una performance inedita, “La comida està fria” a Palazzo Fizzarotti.

Il suo campo d’azione è il femminicidio come tentativo di annullamento, da parte della cultura patriarcale, di voci, affetti, culture, fino allo sterminio di interi popoli, come assistiamo di continuo e stiamo assistendo nello specifico nelle sedi delle guerre che ancora funestano il nostro pianeta con la prepotenza, manco a dirlo maschia, che non risparmia, anzi, si fregia, di stupri e massacri genocidi, dimostrando che quella umana, all’alba del ventunesimo secolo, è lontana dall’essere una civiltà. L’umanità, nell’opera di Galindo e nella coscienza di tutt* noi, è ancora la sede di dinamiche tribali e impulsive, volte solo alla prevaricazione fisica ed economica, mediante l’uso puerile e irragionevole delle armi.

Quattro i video presenti all’ex Tesoreria: “El dolor en un pañuelo” (Il dolore in un fazzoletto) (1999), in cui l’artista, legata nuda a un letto verticale, subisce la proiezione di pagine di giornale con notizie di femminicidi e violenze sulle donne; “Perra” (Cagna) (2005), che denuncia l’aumento di casi di femminicidi e violenze sulle donne in Guatemala, con una metodica peraltro particolarmente spregevole, ossia quella di incidere insulti a punta di coltello sulla pelle delle vittime come strumento estremo di controllo del corpo; “Tierra” (Terra) (2013), dedicata alle violenze dello sterminio della popolazione indigena anche con la privazione della casa e della terra per un numero impressionante di persone; “La verdad” (La verità) (2013), forse il più scioccante, che propone il racconto delle donne maya sopravvissute al genocidio della dittatura di José Efraín Ríos Montt.

Ne “La Verdad”, oltre alle parole, di una violenza inaudita, tanto più inaudita perché vera, Galindo si fa iniettare un anestetico nelle gengive ogni dieci minuti, fino a non poter più parlare. Un simbolo potentissimo: una cultura che ci zittisce fin dalla culla, che ci educa a stare tanto più zitte quanto peggiore è la violenza, è una pratica verso cui è impossibile non immedesimarsi. Il dolore di una donna è il dolore di tutte noi.

Altra domenica, altro giro di cinema all’ABC. È il turno di una doppia proiezione. Entrambi i film sono realizzati con footage preesistenti, e parlano rispettivamente di fratellanza non tossica e di sorellanza nell’errore.

Il primo film è “Cinque Uomini” di Cosimo Terlizzi (Italia/Svizzera, 2022), che parte dal tour dello spettacolo “Cinq hommes” del 2008, e dal suo backstage realizzato con il camcorder e raccolto nelle relative cassettine. Il documento filmico racconta con verità i riti del teatro, gli sfottò, i momenti di relax tra una recita e l’altra, le relazioni famigliari stravolte dai ritmi dello spettacolo, le insicurezze in contraddizione con la baldanza esibita sul palco.

Il secondo film è “Malqueridas” di Tana Gilbert (Cile, 2023), una specie di videodiario realizzato con i cellulari dalle detenute di un carcere cileno, cellulari rigorosamente nascosti dalle guardie. Tutte madri, vivono e condividono la pena e le pene della lontananza dalle famiglie, creando a loro volta una famiglia all’interno della cella. In una specie di cristologia tutta al femminile, le detenute creano una comunità che è una discepolanza, unità ora gioiosa, ora profondamente dolorosa, che conduce alla redenzione collettiva, alla salvezza e alla beatitudine dell’abbraccio filiale.

Beatrice Zippo
Foto 1, 2, 3 di Beatrice Zippo

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.