“Stasera ho chiesto al caso che cosa devo fare:
sono stanco del mio ruolo e ho voglia di cambiare,
non so se andare avanti o se è il caso di scappare
o se è solo il bisogno di un nuovo sogno da sognare;
adesso che ho quello che ho sempre voluto
mi sento un tantino legato,
vorrei sparire per ricominciare da capo,
con un nuovo mazzo di carte, un nuovo gioco.
Ma il libro mi ha detto: “Tieni la testa a posto,
datti una regolata e guarda bene dentro te stesso,
non giudicare gli altri e cerca invece di capire,
butta via lo specchio, ché c’è il mondo da guardare”.
Vorrei esser come l’acqua che si lascia andare,
che scivola su tutto, che si fa assorbire,
che supera ogni ostacolo finché non raggiunge il mare
e lì si ferma a meditare
per scegliere se esser ghiaccio o vapore,
se fermarsi o se ricominciare.”
[Eugenio Finardi – “La canzone dell’acqua”]
Oggi – purtroppo per noi – sono davvero rimasti in pochi gli artisti che riescono a superare le barriere del tempo e dello spazio; il mondo dell’arte in generale e della musica in particolare pare aver assunto le fattezze di un mostro affamato che tutto divora, tritura, fagocita, sputa – o diversamente espelle – in modo automatico e rapidissimo, tanto che viene da chiedersi dove abbiamo sbagliato, dove ci siamo persi, quando abbiamo rinunciato al grado di qualità e libertà che avevamo a fatica conquistato, quando ci siamo vilmente sottratti alla lotta, lasciando che le invasioni barbariche ci conquistassero, invece di lottare sino allo stremo delle nostre forze, quantomeno nella speranza di consegnare un mondo migliore a quanti sarebbero venuti dopo di noi.
Eugenio Finardi, lui, non ha mai abdicato: quando nel 1976 cantava “voglio essere come tutti gli altri e del futuro sentirmi una parte” nel famoso finale di “Voglio”, scelta – guarda caso! – anche per l’apertura del recente ultimo cd ed originariamente contenuta nel suo secondo album “Sugo” assieme a, tra le altre, “Musica ribelle”, “La radio” e “Oggi ho imparato a volare”, aveva già pienamente realizzato la sua perfetta dichiarazione di intenti, oracolo di una concezione dell’esistenza e della natura umana che cercava e trovava il proprio scopo di vita nella conoscenza, consapevolezza e comprensione dell’altro, nel riconoscerlo per riconoscersi, non più un’unità singola e finita, bensì infinitesimale particella di una infinita cellula, finalmente comprendendo che vi può essere senso solo nel sentirsi parte di quel tutto.
Per questi ed altri motivi, Eugenio è oggi tra i pochi che possano permettersi di affermare, senza tema di smentita, di avere una storia da poter raccontare in musica, conscio del grande passato alle spalle ma anche della voglia di conquistarsi ancora un futuro, degli amori ed impeti giovanili mitigatisi nelle delusioni e disillusioni della maturità, dei sogni e delle convinzioni dalle profonde radici che dovrebbero fisiologicamente aver perso forza propulsiva e che, invece, tuttora non conoscono alcuna incondizionata resa. Così, alla bella età di 71 anni, Finardi appare sempre l’artista vivo, pulsante, indomito che abbiamo imparato a conoscere ed amare, incessantemente alla ricerca di arricchire il proprio percorso, la propria crescita, la propria vita; dopo aver a lungo magnificamente cavalcato il rock ed aver bazzicato il pop di classe per poi imbarcarsi in un ritorno al futuro che lo ha portato dal blues al fado e finanche alla musica sacra, ora può confessare senza timore alcuno il bisogno di mostrarsi al suo pubblico integro, sincero, vero, nudo.
E la risposta a questo impellente ed incalzante desiderio, che infine si fa indifferibile ed improcrastinabile bisogno, è, a mio modesto parere, proprio “Euphonia”, il suo più recente affascinante progetto che condivide con due assoluti protagonisti dell’universo jazz contemporaneo, Mirko Signorile e Raffaele Casarano, entrambi magnifici figli – lo affermo orgogliosamente – della stimolante scena pugliese. Detto così, si potrebbe supporre che anche Finardi si sia infine piegato alla malcelata ossessione che da qualche tempo ha catturato il mondo musicale, colto e non, vale a dire la malsana convinzione di poter ‘buttare in jazz’ qualsivoglia diverso genere, repertorio, composizione persino, il tutto nel nome dell’inedito interesse dimostrato dal ‘popolo bue’ per un genere mai tanto amato, anzi da sempre considerato di nicchia, una febbre che si è via via trasformata in una vera epidemia che – prima o poi – sta ‘infettando’ tutti i migliori – ma, purtroppo, anche i peggiori – interpreti.
“Euphonia Suite”, invece, sembra rispondere a necessità più alte, sostanzialmente ad una essenziale voglia di riunione di tre anime in perfetta aderenza con l’assunto demoraesiano che vede la vita come l’arte dell’incontro, di tre menti pensanti che non cercano di primeggiare o pavoneggiarsi ma soggiacciono in perfetta alchimia alle richieste dei brani di volta in volta affrontati, di tre interpreti unici che, pur scegliendo – giustamente – di dare soprattutto risalto alle doti compositive di uno di loro, propongono esecuzioni che contengono infinite piccole incantevoli magie che saprebbero ammaliare e conquistare anche l’ascoltatore più distratto, figuriamoci il sempre attento e preparato pubblico dell’Associazione “Nel gioco del jazz”, presieduta da Donato Romito, che ha inserito una tappa del tour nel cartellone della sua nuova rassegna “Starting again”, diretta da Pietro Laera, regalando un altro sold out al Teatro Forma di Bari.
Riproponendo integralmente e congiuntamente la suite che forma la tracklist dell’ottimo album omonimo, con la sola aggiunta della splendida “Patrizia”, recentemente pubblicata come singolo e messa lì a dimostrare tutta la forza e le possibilità di un progetto ancora pienamente in divenire, il pianoforte di Signorile e i sassofoni di Casarano, spesso lanciandosi in ‘soli’ di indicibile bellezza, hanno incantato i presenti mettendo la loro preziosissima Arte al servizio del songbook di Finardi e di taluni graditissimi ospiti, tra cui è impossibile non ricordare Franco Battiato ed Ivano Fossati, rispettivamente presenti in scaletta con “Un oceano di silenzio” e “Una notte in Italia”; così potevamo riassaporare frutti di ineffabile dolcezza nutriti da nuova appagante linfa vitale, ritrovando, oltre alle già citate “Voglio” e “La radio”, le inossidabili “Soweto”, “Katia”, “Diesel”, la divina “Le ragazze di Osaka”, “Dolce Italia”, la magnifica “Amore diverso”, che qui rivela tutte le potenzialità della ninna nanna composta per la figlia primogenita Elettra, “Vil Coyote”, “Un Uomo” e molte altre, tra cui dovevamo purtroppo registrare l’assenza di “Musica ribelle”, sino alla definitiva chiusura con la mitica “Extraterrestre”, in un caleidoscopico gioco di rimandi in cui si realizzava perfettamente l’incantevole proposta dei nostri, colma, come di raro accade, di palpitanti emozioni che, trasformate in musica e parole, venivano trasmesse in modo profondamente indelebile all’attentissima platea, che ricambiava con meritata osannante euforia.
Buon viaggio “Euphonia”.
Pasquale Attolico
Foto di Gaetano de Gennaro