La chiusura dell’edizione 2023 del Locus Festival regala a Bari la mistura di bellezza assoluta ed ipnotica magia di “Saving Grace”, il nuovo progetto musicale della leggenda vivente Robert Plant

Il passato è un trampolino di lancio, non un macigno. Non voglio urlare ‘Immigrant Song’ ogni sera per il resto della mia vita, e non sono sicuro che potrei. È già un miracolo esserne usciti vivi. I “Saving Grace” sono la mia salvezza; mi sento benedetto da questa musica di cui ho potuto far parte, prima nei folk club d’Inghilterra a metà anni ’60, poi con la potenza e gloria dei Led Zeppelin, passando per tutta la musica arrivata dopo, fino agli amici che mi accompagnano ora, una “grazia salvifica” che mi dà una fantastica dimensione psichedelica, messa assieme ad una musica antica. Per come la vedo io, il rock’n’roll è musica folk. Sono molto fortunato ad essere circondato da musicisti, cantanti, autori che mi fanno esplorare una musica da cui continuo a imparare, mantenendo la forza della mia voce e della mia attitudine. Ho ancora uno scintillio dentro di me.” (Robert Plant)

Alla fine dobbiamo averlo pensato un po’ tutti; anzi, pur non giurandoci, credo di aver sentito una suadente voce tentare di convincere i propri vicini con parole chiare e precise: “ora noi ce ne stiamo fermi qui, immobili, così l’incanto non si spezzerà mai”. Idea affascinante, ma del tutto irrealizzabile in virtù di quella dannata legge non scritta che sentenzia l’immediata dissolvenza dei sogni a lungo accarezzati e magicamente materializzatisi, la stessa che, però, ci ha insegnato ad abbeverarci avidamente ogniqualvolta ci è dato in dono di poter godere alla fonte stessa dei nostri desideri.

Quando, a chiusura di una memorabile edizione 2023 del locale Locus Festival, sul palco allestito sulla Rotonda di Via Paolo Pinto a Bari è apparso Robert Plant, più d’uno – e chi scrive è tra questi – non deve aver creduto ai suoi occhi; godere – e a queste bistrattate latitudini, poi – della performance di uno dei più grandi vocalist di tutti i tempi, una vera leggenda vivente del rock mondiale che ha legato indissolubilmente il suo nome al gruppo dei Led Zeppelin, che di quello stesso rock ha fatto la storia, aveva già a priori dell’incredibile. È vero: nonostante si fosse registrato il sold out già da tempo, serpeggiava tra i fans una non ben definitiva paura non solo di potersi ritrovare di fronte ad uno dei soliti dinosauri scesi sino a noi solo per riposare le stanche membra e lanciare gli ultimi, incerti, gorgheggi, ma anche e soprattutto che il nuovo progetto musicale non fosse consono all’anima dannata del nostro eroe; ebbene, occorre immediatamente affermare che se qualcuno avesse disdegnato l’evento assecondando questi timori, ha commesso un errore di proporzioni devastanti, forse irreparabile, di cui si dovrà presto pentire, mentre i presenti avranno il loro bel dire “io c’ero” per davvero tanto, tanto tempo, avendo potuto constatare che il progetto “Saving Grace”, che, pur avendo già quattro anni di vita rodata in piccoli locali del Regno Unito, incomprensibilmente non ha ancora alcuna incisione all’attivo, calza come un guanto alla nuova vita del settantacinquenne cantante inglese, la cui inimitabile ugola sembra esaltarsi come non gli capitava da tempo nella condivisione del palco con la splendida voce (ma suona anche basso e fisarmonica) di Suzi Dian, la batteria di Oli Jefferson, il mandolino e le chitarre acustiche ed elettriche di Tony Kelsey (Plant lo definisce “Messia della chitarra” presentandolo) ed il banjo, le chitarre acustiche elettriche ed il cuatro di Matt Worley.

Che sarebbe stata una serata memorabile lo si è compreso subito, sin dall’ingresso dei fantastici cinque, che, dimostrando immediatamente un interplay praticamente perfetto, da cui non traspariva alcun laccato rispetto referenziale per Plant (il cui ingresso, però, veniva salutato da una devota e dovuta standing ovation del pubblico), hanno dato fuoco alle polveri proponendo il loro breve ma già intenso percorso musicale che si abbevera alle radici stesse del folk e del blues, con citazioni alla black music e – ça va sans dire – qualche fugace accenno alla discografia del leader (“Down to the sea” e “Let the four winds blow”) e, naturalmente, dei Led Zeppelin (“Friends”, “Four sticks” ed una versione memorabile della mitica “The rain song”).
Così, tra brani rubati al repertorio tradizionale (“Gospel plow”, “The Cuckoo”, “Satan, your kingdom must come down”, forse una divertita risposta alle dicerie di satanismo che hanno sempre investito i Led Zeppelin, “Gallows pole”, riproposta anche da Plant, Page & C. in “Led Zeppelin III”, ed una magica “And we bid you goodnight”, proposta a cappella al termine del concerto), come a quello di Leon Russell (“Out in the woods”), Lonnie Young, Ed Young, & Lonnie Young Jr (“Chevrolet”), Low (“Everybody’s song”), Nashville Cast (“Too far from you”), Moby Grape (“It’s a beautiful day today”), Los Lobos (“Angel dance”), il miracolo si è di nuovo compiuto e la performance ci ha restituito un artista integro, che l’età e gli eccessi hanno – forse – mutato ma non piegato, ancora capace – pur con l’aiuto di invero minimi artifizi tecnologici – di entusiasmare il pubblico con la sua voce.

Un attimo fa ho definito ‘inspiegabile’ l’assenza di prodotti discografici del gruppo, ma – pensandoci bene – forse è meglio così; Plant, Dian & C. sembrano voler condividere con il mondo il loro elegante e affascinante Verbo musicale quasi come i vecchi predicatori, quelli che giungevano in città per citare le Sacre Scritture e fare proseliti alla missione, prima di ripartire verso nuove destinazioni, guidati solo dal loro Credo. Ognuno dei componenti ha argomenti da vendere per attrarre il pubblico senza, però, mai abbandonare la via del rigore esecutivo, della cura sonora, della profonda devozione verso il passato, ma anche della ferma consapevolezza di poterlo affrontare senza paura, anche grazie alla presenza di un leader che pare – finalmente – essersi liberato dagli spettri del passato e dalle esuberanze giovanili ed aver abbracciato tutta la sua storia, il suo talento, il suo carisma, che estrinseca anche quando lascia fisicamente spazio alla splendida Suzi ed ai suoi compagni di viaggio, con i quali crea una mistura di bellezza assoluta, un momento di mistica ed ipnotica magia difficilmente replicabile, in cui tutti i musicisti impegnati sembravano gareggiare nel dar vita a idee musicali colme di slancio e di intuizioni, apparentemente elementari ed impalpabili, ma in realtà complesse e poderose, tanto negli energici riff quanto nelle sognanti melodie, in uno sviluppo dinamico ed intuitivo che non conosceva un attimo di flessione o affaticamento, consegnandoci un set davvero unico.

E quando ogni singola mente pensante ed ogni spaurito cuore presente in platea si sono consegnati a quell’angelo caduto sulla terra, tutto è finito e si è stati costretti a tornare alla realtà, allora, e solo allora, si è realizzato di aver partecipato ad un rito collettivo e, di colpo, si è avvertito – a dispetto della caldissima estate incombente – un po’ di freddo in più, rammaricandosi di non averci provato davvero a restare per sempre in quel sogno.
Ma ormai si è fatto tardi.
Goodnight.
Buonanotte a tutti.
E fate bei sogni.

Pasquale Attolico
Foto dalla pagina Facebook del Locus Festival

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