“Ma allora, come si fa a capire se nella vita ti hanno rubato veramente il Cuore?” Lo abbiamo chiesto a Marco Bellocchio, Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi a margine della presentazione dello splendido “Rapito”

Timido, disponibile, un po’ schivo, ma con uno sguardo che ti avvolge caldo, quando ti rivolge la parola, come un abbraccio. Non un “personaggio”, bensì una persona semplice, di cultura, con cui si scopre amabile il dialogare.
Il Maestro Marco Bellocchio è stato a Bari per presentare il suo ultimo straordinario film “Rapito” (recensito dal Cirano Post in data odierna); lo abbiamo incontrato assieme a Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi, protagonisti della pellicola.

La prima domanda è di rito: “Perché questo film…”

Il film nasce dalla lettura illuminante di “Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX” di Vittorio Messori (2005 – Mondadori). Dal fascino, dall’impeto scaturito in seguito a tale lettura, la volontà di volerne fare un film.
Solo in un momento successivo sono derivate tutte le riflessioni politico-ideologiche  (contrapposizione tra ebraismo e chiesa) che il testo racchiude. Era mia intenzione quella di fare un film dove il sentimento venisse prima del pensiero. Una storia in cui fosse evidente che si stesse parlando di un bambino ebreo rapito e del mistero/miracolo della sua fedeltà al Papa. In fondo vi è stato un adattamento del bambino a quello che gli era stato imposto. Avendo con il battesimo ricevuto la Grazia, Edgardo Mortara arriverà ad affermare in chiusura di film: ‘Nessuno mi ha costretto. La conversione è venuta da Dio’. E ci sta tutta questa considerazione.

Edgardo non nutre quindi sentimenti di ribellione?

Lui si sente “costretto” nel suo nuovo ruolo ma quando incontra la madre dai “catecumeni” dove ora studia, lui crolla, strepita e devono fare fatica a distaccarli entrambi: calmare lui e la mamma.
In realtà il suo vero momento di ribellione lo avrà nel sogno, nella dimensione onirica quando andrà a schiodare il Crocifisso. Lì sembra voglia cercare una sorta di riconciliazione tra le due religioni.
Pensa: “Sono piccolino, i miei mi mancano ma vorrei ugualmente mantenere un rapporto di paternità anche con questo secondo “padre”” e quindi liberando il Crocifisso sembra quasi che voglia liberare gli ebrei dalla famosa accusa di deicidio. “Schiodandolo”, gli (ri)dà vita e Lui, il Gesù ora libero, se ne va via tranquillamente con un sorriso di ringraziamento. Una sorta di conciliazione.
Un ulteriore momento di ribellione (vero, non inventato) è quando fa cadere il Papa. Facile vedere una pulsione dietro tale accadimento: uno psicanalista segnalerebbe rilevante questo episodio.
E’ evidente una continua conflittualità dimostrata da una lunga vita costellata da altrettanto lunghe malattie nevrasteniche, spesso interiori, che neanche lui sapeva definire. Certamente una vita non felice, estesa ma non felice in cui ad un certo punto dirà “io sono convertito e convertito rimango” pur mantenendo dei buoni rapporti con la famiglia, anche con la madre.

Lei ha dichiarato che “Rapito” non è un film antireligioso bensì un film di sentimento, di cuore. Riprendendo un commento di Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” (30 maggio, pg 3), Momol Mortara, uomo molto mite, viene visto come vittima di poteri forti (il mondo ebraico, la Chiesa, la moglie stessa) che tenta con la sua tenera umanità di difendere suo figlio come può, di far fronte a forze, pressioni insormontabili. Non mentirà mai dinanzi al piccolo anche quando gli verrà chiesto in modo “strategicamente politico” di farlo, anzi percuoterà se stesso per la sua inettitudine, la sua incapacità di liberarlo.
Come genitore, come educatore ci si interroga spesso su come poter difendere il proprio figlio dinanzi ai “poteri forti”. Vorrei chiedere pertanto a lei, al suo cuore: come ha interpretato, anche in fase di sceneggiatura, il tormento di questo padre?

Io mi identifico abbastanza con il padre; penso che mi sarei comportato come lui. Lui non vuole rinnegare la propria origine ma sarebbe disposto a mettere sul piatto anche la propria religione pur di salvare il bambino.
La madre no, si arrabbia subito.
Mi viene in mente un dibattito dei giorni scorsi in cui una signora ebrea ci avvicinò e ci disse: “Guardi, io preferisco il padre rispetto alla madre, proprio per la sua umanità, la sua fragilità!”

Interviene il Padre-attore (Fausto Russo Alesi):

Momol Mortara è una persona mite che le prova tutte sempre, perché la “storia” si propaga nel tempo, negli anni, ma lui non si arrende mai. Si aggrappa a tutto, anche alle “armi” del dialogo. E questo mi commuove molto perché trovo che il padre sia un personaggio senza tempo in quanto credo – e sono io che parlo non il personaggio che interpreto – che davanti ad un abuso, ad uno strappo così essenziale, così vitale, riuscire, per amore di quel bambino, per gli occhi di quel bambino, a mettere da parte qualsiasi cosa, qualsiasi principio, qualsiasi credo politico, religioso, penso sia un gesto di grande umanità. La storia non ce lo dirà, ma lui prende in considerazione anche la possibilità di potersi convertire. Io penso che se puntano la pistola sulla testa di mio figlio ed io sono lì davanti a quella scena, io faccio qualsiasi cosa per salvarlo.
Il padre si affida alle armi dell’ascolto, al suo credo, alla giustizia finché ne ha forza. Finché hai quella vitalità di riuscire a lottare per il tuo diritto, io credo che provi tutte le strade.

La Madre (Barbara Ronchi) aggiunge:

Tra l’altro, la loro famiglia sarà rovinata economicamente da questa vicenda. Dovranno affrontare un processo, avvocati e continueranno questa lotta nel tempo. Erano dei commercianti di tessuti che si rovineranno economicamente. In pratica è una famiglia intera che viene rovinata.
Si parlava prima del padre, della sua eventuale possibilità di conversione e della madre che non lo avrebbe mai fatto. Ma il discorso non riguarda la “sola” conversione della madre. Io, mettendomi nei panni di questa donna, ho avvertito come la madre si fosse resa intimamente conto che pure andando avanti con le battaglie legali il bambino non lo avrebbero rivisto più. Lo sente, lo avverte. Una madre avverte questo. E l’idea di cedere ai suoi ricattatori sarebbe stato come il cedere di tutta una famiglia, di tutta una comunità intera.
E qui subentra l’aspetto politico, non solo religioso: non si tratta solo di un’intolleranza religiosa nel dire “io non mi converto” ma è il riconoscere di una Storia, di una identità in quanto persona al di là del suo essere donna. “E non rinnegherò quella che è la mia origine ebrea: siete riusciti con un bambino di sette anni, con me non ci riuscirete mai.”
Poi, nel tempo, resteranno in fondo sempre legati mamma e figlio, ma la scena finale è altamente intensa e significativa in quanto lui essendo totalmente passato dall’altra parte, nel suo pensare ed agire, non vuole perdere questa madre per l’eternità, la vuole ritrovare in Paradiso.
E come se il fine fosse buono ma lei dicesse “non vengo, non vengo!” ed è molto drammatico quel momento.

Bellocchio regista ed il tema della fanciullezza: come è stato sviscerato? Quali i riferimenti di fondo?

In questo film è il battito del cuore del bambino che conta e del come quel cuore si rapporti con i genitori, con i fratelli.
Questo film mi ha ricordato a suo modo il libro “Cuore”, ormai in disuso, con alterne vicende di analisi critica nei suoi riguardi (si ricordi “Elogio di Franti” di Umberto Eco – 1962, “Diario minimo”).
A livello cinematografico lo si potrebbe accostare, ed alcuni critici lo hanno colto in modo ancora più rischioso, a “Marcellino, pane e vino” di Ladislao Vajda dei primi anni ’50. Questo Marcellino scopre in un solaio del convento, dove è stato allevato, trovatello da un gruppo di monaci, questo crocifisso con cui stabilisce un rapporto, un dialogo portandogli finanche da mangiare. Marcellino morirà dinanzi a quel crocifisso per poter andare in Paradiso a vedere la madre che lui non ha mai conosciuto e che si suppone sia morta. Questo, per dire come il cattolicesimo sia cambiato rispetto ad oggi. Quello di Marcellino fu un successo mondiale. Film spagnolo in regime franchista. Considerazioni interessanti.
Qui però è completamente differente: il dialogo con Cristo c’è ma in una forma più ironica. In fondo, anche don Camillo dialogò con Gesù in croce.
Ma non dimentichiamoci però che anche questo è solo un film …
– chiosa il regista.

C’è stato tuttavia il tempo e la possibilità di far notare a Bellocchio come Vajda abbia fatto salire in Paradiso sia il Crocifisso che Marcellino al termine del suo film. In questa pellicola, diversamente “appostato”, il Maestro, schiodandolo, fa invece scendere Cristo dalla croce, (ri)dandogli una nuova possibilità vita: defibrillazione perfetta.

Che nessuno si perda questo film!

Vito Lopez
Foto di copertina di Giuseppe Battista

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.