L’elettrocardiogramma di un cuore ibernato: “L’amore secondo Dalva” di Emmanuelle Nicot con la sorprendente Zelda Samson

Film che “muove dentro” a posteriori, con effetto esplosivo ritardato pur sentendosi svuotati dopo la visione, questo “L’amore secondo Dalva” di Emmanuelle Nicot (Francia/Belgio – 2022 – Drammatico – Durata: 83′).
Un minuscolo cucchiaino di sanifico olio di merluzzo dal “gusto amaro in gola e nello stomaco” contro il logorio quotidiano di “sensori” sollecitati a volte da “falsi” problemi.

Non una pellicola di grande richiamo. Non di grande fascino. Non interpretata da grandi attori. Non “girata” da una grande regista, per di più un’opera prima che di solito si “grazia” sempre con un “ottimo esordio dietro la macchina da presa”. Non alcun effetto speciale che ne caratterizzi la visione. Anzi no, errore: l’effetto speciale c’è e dura tutto l’arco dei circa 90′ del film. L'”effetto speciale” è dentro l’anima viva di questa pellicola che “va giù” come un semplice bicchiere d’acqua naturale dal rubinetto (senza depuratore alcuno) non dissetante bensì re-idrantante causa secchezza di “lubrificanti” interiori.

Il film tratta il tema dell’incesto in modo semplice, piano, senza scandali o alterchi. Dalva-Zelda Samson è la giovanissima eccellente protagonista del film che dalle prime battute si vede “salvata” da poliziotti dalle grinfie di colui (il padre, Jacques) che il mondo intero chiama “orco” ma che per Dalva è il suo grande (unico) Amore da cui la stanno dividendo o, per meglio dire, allontanando. Lei non ha mai avuto altri “affetti” con cui confrontare quell'”amore malato” di cui la stanno “violentemente” privando.

Emmanuelle Nicot, 38 anni, belga, è la regista (che brava!) di questa opera prima segnalata vincente alla “Semaine de La Critique” a Cannes 2022, di cui cura anche la secca sceneggiatura, senza fronzoli o ridondanza alcuna. In regia, lenti piani sequenza più eloquenti del “parlato” che conducono ad intensi primi piani espressivi. Ricercato e delicato il ritmo visivo. Nulla di più efficace e più “vero” in cinematografia.

Vi è molto di vissuto da parte della regista belga in quest’opera prima. Figlia di educatori, ha metabolizzato dentro di sé il significato che ha per bambini/adolescenti la privazione sin dai primi anni di vita di una relazione di sano amore con i propri genitori.

Dalva, nel film, viene quindi immediatamente catapultata sin dalla prime battute in una casa famiglia dove poter imparare le regole del vivere in comunità e riuscire a (ri)costruire un vissuto relazionale ed affettivo finora mutilato, monco in compagnia di un fido educatore.

In seguito, la piccola protagonista avrà modo di (ri)incontrare il padre faccia-a-faccia, situazione a lungo da lei attesa, desiderata e tradita dalla crudele realtà. Accadrà in carcere ma lui non avrà il coraggio di sollevare la testa per guardarla negli occhi e parlarle. Dalva ne resterà incomprensibilmente (per lei) delusa. Questo pericoloso spaesamento di una solitudine disperata verrà fortunatamente (per Dalva e per lo spettatore) accolto in un materno “abbraccio”, finalmente risolutore, con cui cercare di (ri)costruire un rapporto affettivo e fare incominciare a palpitare per la prima volta un cuore Ibernato.

Da non perdere.

Vito Lopez

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