Il privilegio di assistere alla genesi di un coinvolgente grido di libertà delle donne: al Teatro Abeliano di Bari la prima nazionale di “88 frequenze”, la pièce dedicata ad Hedy Lamarr con la drammaturgia di Eliana Rotella, la regia di Giulia Sangiorgio e l’interpretazione di Antonella Carone

Non ci sono dubbi: la sua vita è stata un esempio di femminismo. Se fosse viva oggi sarebbe una leader dei movimenti #metoo e Time’s Up; ne sono certa. Dobbiamo imparare dalla storia di Hedy e lasciare libere le ragazze e le donne di vivere la loro età con dignità, perché ancora oggi la regola sembra essere quella di rimanere belle e giovani per sempre: c’è molto di più che possiamo dare e per il quale dobbiamo ottenere rispetto.” (Alexandra Dean)

Hedwig Eva Maria Kiesler era sempre stata una ragazza complessa: all’età di 5 anni era capace di smontare e rimontare uno dei suoi giochi preferiti, un carillon di legno; più tardi diventa una studentessa modello di ingegneria a Vienna, sua città natale, ma interrompe gli studi quando l’industria cinematografica la scopre trasformandola in Hedy Lamarr, “la ragazza più bella del mondo”. Audace, provocatoria, capace di conquistare e poi dimenticare qualsiasi uomo, tra cui John F. Kennedy (“Arance, perché sono carente di vitamina C” gli rispose quando lui le chiese cosa volesse in dono dopo il loro primo incontro), a lei si deve il primo nudo della storia del cinema nel film “Estasi”, ma anche indimenticabili interpretazioni tra cui la parte della protagonista nell’indimenticabile kolossal hollywoodiano “Sansone e Dalila” di Cecil B. DeMille.

Ma Hedy Lamarr è stata molto di più, come sanno bene i lettori del Cirano Post grazie all’intervista concessami qualche tempo fa dalla Professoressa Carla Petrocelli a margine della pubblicazione del suo interessantissimo e fondamentale libro Il computer è donna” (https://www.ciranopost.com/2020/09/22/riscrivere-la-storia-dellepopea-informatica-e-lappassionata-mission-del-libro-il-computer-e-donna-di-carla-petrocelli-la-nostra-intervista/). La Seconda Guerra Mondiale mieteva vittime ed Hedy decise di contribuire in qualche modo a cambiare le sorti del conflitto, mettendo a frutto le sue conoscenze scientifiche per modificare le rozze trasmissioni radio che utilizzavano un solo intercettabile canale per teleguidare i siluri. Grazie all’incontro fortuito con George Antheil, compositore francese che da tempo studiava il controllo automatizzato delle pianole, l’attrice riuscì a dare forma e concretezza ai suoi progetti; i due cominciarono a lavorare al progetto suddividendo il campo di frequenze disponibili in ottantotto sottocampi o canali, vale a dire esattamente nello stesso numero dei tasti di un pianoforte. L’11 agosto del 1942 ottennero il brevetto US numero 2.29 2.387 del “Secret Communication System”, che donarono al Governo per lo sforzo bellico. Questa invenzione all’epoca non piacque né alla marina militare degli Stati Uniti né a Washington. Triste pensare che a causa di una chiusura mentale o forse pregiudizi culturali e – perché no? – sessisti, non fu utilizzata una scoperta che avrebbe potuto consentire di evitare tante altre vittime e, magari, di accelerare la fine del conflitto. Solo nel 1962, l’invenzione di Hedy venne adottata da tutti i mezzi navali che avevano a bordo un sistema di comunicazione ed erano impegnati nel blocco di Cuba. Quando, nel 1985, fu sollevato il segreto militare sul brevetto, la notizia si diffuse ed Hedy cominciò a ricevere vari riconoscimenti, mai ritirati personalmente, dalla Lockheed, dall’Electronic Frontier Foundation, dall’Inventors Club of America e, infine, nell’ottobre 1998, la medaglia Kaplan, la più prestigiosa onorificenza austriaca per un inventore. Ora, che la sua intuizione è alla base delle moderne tecnologie di bluetooth e wi-fi, la data del suo compleanno, 9 novembre, in Germania, Austria e Svizzera è stata proclamata in suo onore “Giornata dell’Inventore (Tag der Erfinder)” e, nel 2014, il suo nome è stato inserito nella National Inventors Hall of Fame statunitense. Eppure quella invenzione da 31 miliardi di dollari non ha mai fruttato un solo centesimo alla Lamarr, lasciatasi dimenticare nella totale solitudine in cui si era rinchiusa dopo aver subito disastrosi interventi chirurgici, vittima della sua stessa divina bellezza e di una personalità poliedrica, mai doma ed ironica fino alla fine (“È troppo profonda per me” fu il suo epitaffio per spiegare la scelta di farsi cremare in luogo della sepoltura), talmente geniale da estraniarsi gradualmente ma inesorabilmente dalla realtà.

Cosa è cambiato nel salto tra due epoche? Se ancora il 69,4% della popolazione pensa che una donna nelle discipline Stem non sarà mai brava quanto un uomo, e se, secondo l’Annuario Statistico Istat del 2022, negli ultimi cinque anni le immatricolate a corsi di laurea dell’area Stem sono state intorno al 21% del totale delle universitarie (mentre per gli uomini la percentuale supera il 40%), e se, nonostante le ragazze iscritte a corsi Stem riescano ad ottenere risultati accademici più elevati dei loro colleghi, i tassi di occupazione e di retribuzione femminili rimangono più bassi rispetto a quelli maschili, non vi è alcun dubbio che resti ancora molto da fare. Moltissimo.

Ma oggi sono contenta di poter affermare di aver assistito alla genesi di uno tra i migliori contributi alla riflessione sull’argomento, “88 frequenze, la produzione della Compagnia Corpora in collaborazione con UNO&Trio che ha debuttato in prima nazionale presso il Teatro Abeliano di Bari per la drammaturgia di Eliana Rotella e la regia di Giulia Sangiorgio.

Sola, sul palco, c’è Antonella Carone, bravissima, bellissima, ipnotica. Immersa nelle spartane ed essenziali quanto tecnologiche scene ideate da Tommaso Lagattolla (suo anche il costume di scena), con l’assistenza di Antonella Voicu, e le affascinanti luci disegnate da Peppino Ruggiero, la protagonista si estranea dal mero racconto delle fasi della vita della Lamarr per parlare della sua personale esperienza d’attrice, delle delusioni e dei successi, delle audizioni a cui deve spesso partecipare e che, ogni volta, si trasformano in una sfida tra come si appare e come si è, tra l’immagine che si costruisce chi ti osserva e chi sei davvero. Ecco, Hedy era proprio questo in fin dei conti agli occhi degli altri: un personaggio, un ruolo che un mondo di uomini aveva scelto per lei, ‘una parte’ che stava stretta a chi era in possesso di ‘un tutto’ di insuperabile bellezza e splendore. “Qualunque ragazza può essere affascinante. Basta restare zitta e sembrar stupida”, amava ripetere a chi vedeva in lei esclusivamente “la donna più bella del mondo”, ma Hedy fu molto più di un bel faccino e la sua vita è, nella sua stessa essenza, un film che si dipana tra avventura, amori, ricerca, scienza e tanta solitudine e delusione per essersi vista negata l’opportunità di appropriarsi dell’unico ruolo a cui, con tutta probabilità, teneva veramente, quello di scopritrice dell’invenzione del secolo, delle 88 frequenze, “perché non è permesso che nello stesso corpo, soprattutto per una donna con la stessa faccia, possa coesistere più di un personaggio”.

Eppure la pièce, talmente bella e coinvolgente da non permettere di comprendere dove finiscano i meriti della scrittura della Rotella e comincino quelli della regia della Sangiorgio, supera anche questo stadio della narrazione, giungendo ad inglobare nella propria analisi non solo chi vive una realtà di artista, bensì tutte le donne. Veicolando l’attenzione del pubblico con l’enorme fascino anche affabulatorio della Carone, in scena con il solo ausilio di uno smartphone che la riprende in diretta rimandandola sul grande schermo grazie al video e sound design di Andrea Centonza ed alla consulenza tecnica di Fabio Brusadin, le nostre tre sembrano rivendicare la volontà di non essere più parte di quel vuoto, di quel limbo in cui il becero maschilismo ha sinora relegato l’intero universo femminile, in tal modo creando uno spettacolo mirabile, per cui mi sento di pronosticare sin d’ora un roseo e lungo futuro, un flusso continuo di pensieri e parole che sonda l’impalpabile femminile in molte delle sue sfumature, che coinvolge anche lo spettatore più distratto sino alla pura emozione, dalle prime battute sino all’epilogo, tenendolo sempre perfettamente in bilico, persino regalando attimi di leggerezza, trascinandolo in un continuo rincorrersi di serietà ed ironia, vita e finzione, essere ed apparire, pregno di un’interpretazione che si fa più volte perfetta, incarnando, attraverso la Lamarr, “la donna”, occupandone cuore, mente e corpo, trasmettendone gli alienati meccanismi cerebrali, la volubile mutevolezza, l’innata insicurezza e la conquistata certezza, svelandole i desideri più nascosti, le sfaccettature, le ambiguità, così da permettere a tutte noi di riconoscerla e riconoscerci immediatamente, ritrovandoci ad indagare, quasi senza accorgercene, su noi stesse.

Così, alla fine, ho capito. Ho capito che Antonella Carone non era sola su quel palco, dato che, assieme a Eliana Rotella e Giulia Sangiorgio, era riuscita ad inglobare in una sola donna la forza di tutte le donne, quelle che cercano e, talvolta, trovano la forza di non farsi relegare al ruolo di un solo personaggio con un bel faccino, ma riescono a mettere in luce ogni loro qualità, ogni frammentazione in cui sono capaci di dividersi, coesistendo ognuna con la propria natura, per farsi spazio in un mondo – ancora – di uomini.

Ero venuta a vedere uno spettacolo sulla avvincente vita di Hedy Lamarr, ed invece sul palco c’ero io.
Anzi, c’ero anche io, insieme a tutte le altre donne.

Maurizia Limongelli
Foto dalla pagina della Compagnia

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