Un’opera crudele e dolce sulla debolezza umana e sul dolore dell’amore: “The Whale”, il film di Darren Aronofsky con il ritorno di Brendan Fraser, premio Oscar 2023

Cerco di spiegarvi perché ho amato subito “The Whale“, il film di Darren Aronofsky con Brendan Fraser e Sadie Sink.

Grazie al potere delle emozioni, una storia come questa può farci immedesimare nei panni di un uomo a cui, altrimenti, non ci saremmo nemmeno mai interessati, per ricordarci che ogni essere umano ha il potenziale per amare e redimersi.”: per  Darren Aronofsky questa è la forza del cinema.
Certo, è stato come ricevere un pugno nello stomaco, eppure è un film che ognuno di noi, prima o poi, dovrebbe vedere, per amarlo o detestarlo. Per tanti motivi validissimi. Una pellicola pregna di spunti di riflessione, simboli e richiami. Personalmente sono andata vederlo perché non volevo perdermi il ritorno al cinema di Brendan Fraser, talmente magnifico nella parte principale di Charlie da aver appena ricevuto il meritato Oscar come migliore interpretazione maschile del 2023. In lui si fondono magistralmente la dolcezza degli occhi e l’ingombrante “presenza fisica” devastata dal dolore e dai sensi di colpa, quella che ci costringe a guardarci dentro perché mai, in nessuna scena, lo si riesce a guardare se non sopraffatti dal disgusto prima e dalla compassione poi, probabilmente per noi stessi.

E non solo. Non volevo perdermi anche il ritorno dietro la macchina da presa di uno dei più visionari talenti del cinema contemporaneo, Darren Aronofsky, colui che nei suoi film rappresenta il corpo come un baco in cui restano intrappolati menti intelligenti e disperatamente sensibili. Così è stato in Requiem for a dream, in cui il corpo è consumato dall’uso di anfetamine e droga, o in The Wrestler, devastato dagli infortuni, oppure ne Il Cigno Nero, in cui è condotto all’estremo dall’ossessione.
Qui, in The Whale, è deformato dal cibo.

La storia, dura, devastante e forse per molti scontata, si sviluppa in una sola stanza di un appartamento qualunque di uno stabile al secondo piano nell’Iowa. Quella stanza è tutto il mondo di un uomo, un solitario insegnante di inglese, che non si vuol mostrare ad alcun essere umano. The Whale in realtà è un’opera teatrale presentata al festival in Colorado nel 2012, ed è lì che Darren Aronofsky si è innamorato della pièce, tanto da mantenerne l’impostazione teatrale anche nella pellicola.

E mi dispiace anche per Akab, perché è convinto che la sua vita migliorerà se riuscirà a uccidere questa balena. Ma in realtà, non gli servirà a niente. Questo libro mi ha fatto pensare alla mia vita.” ripete spesso la sceneggiatura.
Ho pensato che Brendan Fraser avesse avuto questa occasione a causa della sua triste storia da attore cancellato da Hollywood, un che di autobiografico, ma probabilmente è l’autore del dramma teatrale, nonché sceneggiatore della pellicola, Samuel D. Hunter che ha molti punti in comune col protagonista: ha vissuto a Moscow in Idaho, ha insegnato saggistica alla Rutgers University, è dichiaratamente omosessuale e in passato ha sofferto di gravi disturbi alimentari. Eppure tra i tantissimi spunti offerti dal film la grave obesità non è certo il più importante.

Il regista mette in scena un dramma meravigliosamente intimo, in cui affronta tanti temi legati al nostro affannarci nel vivere in un mondo costruito per essere perfetti. Iniziando dal titolo, chiaro riferimento alla mole del protagonista, avvolto in un gigantesco costume stampato in 3D dal make-up artist Adrien Morot a cui è andato l’Oscar 2023 per il trucco. Ma è anche un chiaro riferimento al capolavoro letterario di Herman Melville, “Moby Dick, or The Whale”. Il riferimento al romanzo è palese sin dalla prima scena, anzi per molti versi The Whale è un saggio in forma di film su Moby Dick: nella vera interpretazione del romanzo lo scrittore costruisce Moby Dick come espressione della natura intrinsecamente cattiva dell’uomo. La stessa che nel film il personaggio di Mary, la moglie abbandonata anni prima e interpretata dalla dolcissima Samantha Morton, attribuisce alla figlia Ellie, interpretata magistralmente da Sadie Sink (già vista nel ruolo di Max nell’ultima stagione di Stranger Things).

Sembra che, come la letale balena bianca subisce la visita dei cacciatori e dei curiosi, anche nella stanza/vita di Charlie entrano e escano dei personaggi, alcuni anche senza permesso. Il primo è il giovane evangelizzatore Thomas, interpretatao dal bravo Ty Simpkins, alla ricerca anche lui del perdono ma schiacciato dalla perversione della fede. Unica presenza indispensabile è quella dell’amica Liz, un’altra perfetta interpretazione della splendida Hong Chau, la cui unica e sola assistenza è legata alla ricerca della redenzione per non aver salvato suo fratello, compagno amato da Charlie, dal suicidio.

Non hai mai la sensazione che le persone siano incapaci di non prendersi cura degli altri?
Le scene, tutte girate in 4:3 invece che nel formato 16:9 per rendere meglio il senso di prigionia nel suo enorme corpo vissuto da Charlie, mettono in evidenza quelle questioni malate o irrisolte, oltre alla questione del decadimento fisico e della identità sessuale, evidenti dal primo momento; ritroviamo la discriminazione nel personaggio rider delle pizze, il tema della salute mentale, quella delle dipendenze, ma anche un chiaro richiamo anche questioni positive come il valore dell’insegnamento e quello della sincerità, dell’amicizia e della salvezza.

Una costante che mi ha incuriosito è la presenza del rumore dell’acqua, che ci accompagna in molte scene, trasformandosi da pioggia, al fluire da rubinetto, al suono delicato delle onde del mare di sottofondo, forse il ballo delle balene, che uscendo fuori dall’acqua si mostrano nella loro totale bellezza. E l’acqua ritorna alla fine, in riva al mare, a un momento felice del passato in cui Charlie guarda il mare, l’abisso, mentre abbraccia la sua decisione definitiva.
Ma a volte, qualunque sia la nostra decisione, la strada da percorrere, tutto è destinato ad andare in rovina. E tutto questo ha costruito, a mio avviso, una pellicola di una dolcissima forma, quella della fragilità dell’esistenza umana alla perenne ricerca dell’amore, perdendosi tra la generosità e l’egoismo, attraverso gentilezza, il perdono e la ricerca della redenzione mascherata da finto altruismo. E’ la storia della perdita: tutta la galleria dei protagonisti ne esce perdente, tranne chi ha seguito ciò che gli suggeriva il cuore, a discapito delle scelte difficili.

The Whale è una opera teatrale, sapientemente adattata su pellicola, crudele e dolce sulla debolezza umana, di come anche quando vorremmo prenderci cura di chi ci amiamo riusciamo a fargli del male.
Un’opera assolutamente da non perdere.

Maurizia Limongelli

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