L’eroe e il burattino. L’uomo e la sua deumanizzazione. “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand nella versione di Arturo Cirillo “tocca” il pubblico del Teatro Piccinni di Bari

E tu amami come ameresti te se fossi me e viceversa
Quindi male e senza capire niente
Ma col cielo al suo posto in una città trafficata
Una vita al contrario ed i sogni a metà
Abbiamo finito la felicità
.”
(Lo Stato Sociale, “Amarsi male”)

Nell’affrontare un’opera popolare, c’è sempre la forte tentazione di farne banalità o vacua attualizzazione.
La cancel culture, decontestualizzata, ruminata, perseguita come fosse un bollino da apporre alle produzioni artistiche sfocia in quel fenomeno che viene chiamato washing: un lavaggio dell’arte, del tutto impersonale, rende i significati ora simpatizzanti del popolo del Pride, ora delle femministe, ora degli ambientalisti, ora delle minoranze etniche. La ricerca dell’originalità a tutti i costi, l’ossessione di fare qualcosa che piaccia invece che qualcosa di sensato, vorrebbe insidiare l’inutilità dei classici.

Peccato che i classici, se ben scritti, e, soprattutto, se ben letti, resistono a ogni tentativo di lavaggio e candeggio.
È così per “Cyrano de Bergerac”, commedia scritta da Edmond Rostand sul fare del Ventesimo Secolo, ispirata a Savinien Cyrano de Bergerac, ritenuto da molti il primo scrittore fantasy, che ha ispirato le fortune di Jules Verne.
Non si contano gli adattamenti discografici e teatrali del testo, una parabola dei sentimenti male espressi e della frustrazione. Dai saggi di fine anno alle luci di Broadway, non è dato sapere se qualche attrice o attore non ne abbia mai affrontato il testo.

L’adattamento che ne fa Arturo Cirillo arriva al Teatro Piccinni di Bari, nell’ambito della Stagione Teatrale 2022.2023 Altri Mondi”, in esclusiva regionale, coprodotto da Marche Teatro, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova e Emilia Romagna Teatri. Il cast, oltre allo stesso Cirillo nei panni del poeta guascone, vede Valentina Picello, Giacomo Vigentini, Francesco Petruzzelli, Rosario Giglio e Giulia Trippetta. Gli attori ricoprono sia i ruoli principali che quelli secondari, grazie anche a un gioco di scene e costumi che ha quasi del magico (curati rispettivamente da Dario Gessati e Gianluca Falaschi).

Il principio dello spettacolo sembra scorrere secondo i piani; a emergere sono, per l’appunto, le scene sfavillanti e i costumi glam che ricordano il varietà tra Anni Sessanta e Settanta, da Raffaella Carrà a Renato Zero, dal primo Bagaglino ai luccichii ridanciani alla maniera di Renzo Arbore. Sembra quasi un musical (e la mia personale, scarsa, predisposizione, per il genere, inizia timidamente a chiedermi il conto della serata). Alcuni segni, però, lasciano presagire che non sarà propriamente una recita di poesia, cappa e spada: la chioma turchina di Rossana (la Picello è meravigliosa), dietro l’apparenza scenica della diva da manuale, chiama i numi tutelari di un altro classico.
Ecco, allora, che fa capolino Pinocchio: come non averci pensato prima?

Due classici a confronto, uniti da un segno inconfondibile: il naso.
Il naso unisce i due capolavori, facendone detonare i minimi comuni denominatori: esso è la misura della menzogna, da un lato, quella di Pinocchio, che non si può nascondere, dall’altro quella dietro cui Cyrano nasconde il proprio amore per Rossana al mondo, e forse anche a se stesso. Il naso è anche la misura del pregiudizio del mondo nei confronti di un eroe malinconico fino allo stremo: ciò che di Cyrano risiede dietro il suo naso è ignorato da chi lo circonda, Cyrano vive la friendzone e l’infantilizzazione, quasi una deumanizzazione da parte dei suoi conoscenti, equiparato a un disabile, prima di essere uno spadaccino e un poeta; deumanizzato suo malgrado è anche Pinocchio, che per colpa del suo naso meccanizzato per incantesimo non può serbare emozioni e ripensamenti.

È la commedia drammatica (la “dramedy” come dicono quelli bravi) che trova la sua realizzazione nella mancata realizzazione: nelle frustrazioni di Cyrano e Cristiano, l’uno il complemento dell’altro, l’uno l’incompiuto dell’altro, scorrono gli altri personaggi, che li pretendono non come essi sono, ma come essi dovrebbero essere, allontanandoli dal lieto fine, che a Cyrano, diversamente da Pinocchio, non è concesso.
Non si perdona quando “ne uccide più la lingua che la spada”, come suggerisce la Bibbia, neppure quando la parola difende, neppure quando la parola scuote dallo status quo; per questo a Cyrano viene riservato questo trattamento, la morte per mezzo di un pezzo di legno (in tutto simile a quello che Mastro Ciliegia regalò a Geppetto), un “Tocco” alla “fine della licenza” che dà fastidio perché ha ragione. “E la ragione non sempre serve”, cantava Zampaglione.

La scrittura di Cirillo, che oltreché da Rostand e Collodi attinge a piene mani anche da Rodari, Modugno, Bennato, prova che non vi è alcun bisogno di bloccare nella contemporaneità qualcosa che è già perfetto di suo. Anzi, due opere così perfette nello stesso spettacolo, che convivono in un mash-up armonico, dimostrano che la bellezza non appartiene ad alcuna epoca e ad alcuna età: è il tempo, semmai, che alla bellezza finisce per piegarsi.

Beatrice Zippo
Photo credit pagina Facebook e profilo Instagram Arturo Cirillo Teatro

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