Il tour mondiale del “Pavel Haas Quartet” nel ventennale d’attività concertistica fa tappa a Bari regalando al pubblico della Fondazione del Teatro Petruzzelli una serata indimenticabile

L’archetto del violino cuce, come un ago col filo, delle note invisibili. Abbiamo tutti nel petto un violino e abbiamo perduto l’archetto per suonarlo. Alcuni lo ritrovano nei libri, altri nell’incendio di un tramonto, altri negli occhi di una persona, ma ogni volta l’archetto cade dalle mani e si perde come un filo d’erba o un sogno. La vita è la ricerca infinita di questo archetto per non sentire il silenzio che ci circonda.” (Fabrizio Caramagna)

Nei tempi senza fiato che ci è dato in sorte di vivere, ritagliarsi ben due ore di una caotica giornata da dedicare all’ascolto dal vivo di un quartetto d’archi può apparire anacronistico, inopportuno, superfluo: non quando sul palcoscenico c’è il Pavel Haas Quartet, non quando il programma della serata comprende il Quartetto per archi n.60 in Sol maggiore op.76 n.1 di Franz Joseph Haydn, il Quartetto per archi n.2 in Fa maggiore op.92 di Sergej Prokof’ev e, soprattutto, il Quartetto per archi n.15 in Sol maggiore op.161 di Franz Schubert. Nell’odierna formazione che annovera Veronika Jarůšková e Marek Zwiebel ai violini, Peter Jarůšek al violoncello e Karel Untermüller alla viola, il Quartetto è attualmente impegnato nel tour mondiale che celebra il ventennale della loro attività, vale a dire da quando Veronika e Peter, coppia anche nella vita, decisero di dare vita ad un esperimento musicale che si rifacesse, carpendone finanche il nome, all’arte dell’allievo più talentuoso di Janček, Pavel Haas per l’appunto, compositore ceco cui si deve, tra l’altro, la creazione di tre splendidi quartetti d’archi, imprigionato nel 1941 dai nazisti nel ghetto di Theresienstadt e assassinato tre anni dopo, a soli 45 anni, nel campo di concentramento di Auschwitz; molte cose sono mutate dal 2002 ed ora il Quartetto è uno degli ensemble di giovane generazione più accreditati a livello internazionale, inamovibilmente presente nell’Olimpo della musica concertistica grazie soprattutto ad una eccezionale maturità interpretativa, al punto che l’autorevole rivista britannica “Gramophone” ha sentenziato che i suoi componenti “rappresentano le migliori qualità della tradizione ceca: calore, sonorità, individualità, intensità; ma ciò che colpisce è la loro impavida assunzione di rischi, il loro fervore e l’assoluta sicurezza”. Con questi presupposti, appare lapalissiano che l’appuntamento, inserito nel cartellone della Stagione Concertistica 2022 della Fondazione del Teatro Petruzzelli, rappresentasse una di quelle serate irrinunciabili, un evento da non mancare ad ogni costo: e così è stato. Il “Pavel Haas Quartet” ci ha regalato una performance sublime, con un suono d’insieme difficilmente replicabile tanto per sinuosità quanto per ricchezza di tinte, assolutamente equilibrato e definito nella chiarezza delle quattro voci che dialogano senza sosta tra loro denotando una sintonia invidiabile, talmente perfetta da presentarsi all’orecchio, in moltissimi frammenti, come fosse partorita da un solo strumento.

La partenza, come detto, era dedicata alle note di Haydn e del suo “Quartetto per archi n.60 in Sol maggiore op.76 n.1”, affrontato nel primo movimento (“allegro con spirito”) con una veemenza inedita, quasi fosse una dichiarazione d’intenti sullo spirito del concerto, che si trasformava in pura e toccante passione nel successivo “adagio sostenuto”, per poi tornare in tutta la sua forza impetuosamente intensa nel “minuetto presto” e nel finale “allegro ma non troppo”, che il Quartetto eseguiva non senza infarcirlo con amabili trovate ornamentali.

Il “Quartetto per archi n.2 in Fa maggiore op.92 – Su temi della Kabardia” fu composto durante la guerra, tra il 1941 ed il 1942, allorquando Prokof’ev fu trasferito dalle autorità sovietiche nella città di Nalchik, nel Caucaso settentrionale, motivo per cui racchiude in sé vivaci temi ed armonie popolari in quella regione che solo il genio del compositore russo era riuscito a fondere con una delle più classiche forme musicali, il quartetto d’archi; i “Pavel Haas” colgono alla perfezione lo spirito prokofieviano e ne traggono un’esecuzione mirabile, di grandissimo impatto, capaci di catturare – in quanto essi stessi visibilmente catturati – il pubblico, introducendolo a quei ritmi da canti e danze arcaici, se non tribali.

L’ampia – se non monumentale, con i suoi 48 minuti – opera di Franz Schubert chiudeva poi la serata, rendendola definitiva e, con ogni probabilità, unica nella memoria degli ascoltatori. Brano tra i più difficili di tutto il repertorio quartettistico, il “Quartetto per archi n.15 in Sol maggiore op.161” è ritenuto universalmente uno dei vertici assoluti non solo della produzione del compositore austriaco ma di tutta la musica del XIX secolo, una prova irraggiungibile per modernità e novità, in cui i confini della forma classica vengono arditamente e straordinariamente dilatati e finanche cancellati, sino a giungere ad una concezione musicale del tutto originale, probabilmente sino ad allora sconosciuta. Il Pavel Haas Quartet ne dava una lettura emotivamente nuda, mai laccata, ma sempre permeata di sublime passione, di suprema bellezza, di accecante luminosità, con le grandi architetture formali dell’“allegro molto moderato” del primo movimento che catturavano il pubblico, persuadendolo a seguire i musicisti in questo particolare viaggio, in questa vincolante corrispondenza di musicali sensi; se il successivo “andante un poco moto”, grazie alle sue melodie dolorose dalle caratteristiche inquietanti interruzioni, sembrava ossessionato dalla morte stessa, reso in un clima di forte tensione drammatica, incalzante, assillante nella sua irrequietezza cromatica, lo “scherzo – allegro vivace” veniva eseguito in preda ad un apparente stato freneticamente febbrile, mentre il “trio – allegretto” suggeriva un’elegante divagazione nel segno di una poetica malinconicamente inquieta, sino alla progressiva accelerazione dell’“allegro assai” nel finale, che, mettendo in risalto tanto il profilo ritmico quanto l’intensità drammatica della composizione tutta, giungeva sino a farsi danza caleidoscopica, ammaliante, ipnotica.

Al termine, l’inappuntabile concentrazione del pubblico del Petruzzelli si è sciolta in una vera e propria ovazione, un tributo che ha reso finanche superfluo il bis generosamente concesso, perchè quando si è stati così fortunati da aver ascoltato un capolavoro supremo superbamente eseguito, non sembra esserci più posto nell’anima per altra musica.

Pasquale Attolico

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