“La mia musica è il mio ritratto.” (Francis Poulenc)
Nel meraviglioso arazzo che, prima della – breve – pausa estiva, si andrà a comporre definitivamente nella programmazione della Fondazione del Teatro Petruzzelli di Bari (https://www.ciranopost.com/2022/06/07/da-la-cenerentola-di-rossini-con-la-regia-di-emma-dante-ai-concerti-dellorchestra-giovanile-luigi-cherubini-diretta-dal-maestro-riccardo-muti-i-due-mesi-incandescenti-della-fo/), non vi è dubbio che un tassello di tutto riguardo fosse determinato dall’appuntamento con l’Orchestra ed il Coro del Teatro diretti dal Maestro Hansjörg Albrecht, di recente nominato direttore principale ospite per la musica sinfonica, con ospiti i pianisti di fama mondiale Arthur e Lucas Jussen.
Il programma della serata appariva indubbiamente vario ed impegnativo, con una iniziale focosa esecuzione delle “Danze Polovesiane” dall’Opera “Il Principe Igor” di Aleksandr Borodin, in cui, nonostante una sempre magistrale interpretazione dell’Orchestra, ci pareva fosse il Coro, come di consueto preparato dal Maestro Fabrizio Cassi, a prendere per mano l’ensemble, trascinandolo nella forsennata notissima pagina musicale, da molti considerata incompiuta, del compositore russo, cui la direzione di Albrecht, memore della smagliante ambientazione orientaleggiante che seppe donarle l’orchestrazione di Rimskij-Korsakov, sapeva restituire la giusta colorazione vivace, potente, viva, portando il corposo collettivo a trasmettere al pubblico suggestioni sempre intense, ora delicate e incantate, ora melodiche e trascinanti, ora caleidoscopiche e vorticose.
Un discorso del tutto differente merita la “Sinfonia n.1 in sol minore op.13 – Sogni d’inverno” di Pëtr Il’ič Čajkovskij che ha chiuso la serata. Di fronte ad una prova di tale altissima gravosità e complessità, universalmente rintracciata nel troppo netto contrasto tra “lugubre” e “maestoso” che costituisce l’architettura di questa composizione che lo stesso autore aveva denunciato presentasse “una certa immaturità” giovanile, determinata soprattutto dalla malattia nervosa che gli causò il lavoro notturno (“ho rovinato i miei nervi nella dacia di Mjatlev, affaticandomi sulla sinfonia, che stentava a venire”) e che giunse a provocargli “allucinazioni da congelamento delle estremità”, l’Orchestra ed il suo Direttore, certamente per la ancor fresca collaborazione che, comunque, pronostichiamo di successo, sembrano talvolta disunirsi, soprattutto nei momenti di maggior cupo lirismo, salvo poi presentarsi organicamente trionfali nelle elaborazioni polifoniche del finale, grazie anche al massiccio e fondamentale apporto degli ottoni e delle percussioni.
Ad ogni modo, il fulcro dell’evento – ça va sans dire – era di certo da inquadrarsi nell’attesissima esibizione degli ancora giovanissimi fratelli Jussen e dell’Orchestra del Petruzzelli nel “Concerto per due pianoforti e orchestra in re minore FP 61” di Francis Poulenc, e qui si è dovuto indubbiamente registrare un altro dei momenti memorabili della storia recente del nostro Politeama.
Lucas ed Arthur, forti di una tecnica che supera la perfezione, di un tocco purissimo, di una precisione assoluta e, soprattutto, di una simbiosi più unica che rara, hanno convinto fin dai primi istanti, da quell’attacco orchestrale, che appare così simile al colpo di pistola di uno starter, affrontato immediatamente ad un ritmo vertiginoso. Da quell’istante è stato tutto un crescendo di esuberanza e precisione, virtuosismo e spontaneità, dinamismo e sensibilità; l’Orchestra, sotto la convincente direzione di Albrecht, ed i solisti sembravano gareggiare nel catturare vividamente gli stati d’animo e i colori mutevoli del primo movimento, nel sottolineare il lento secondo tema, il riposante Larghetto, come un regno di nebbie e gocce di pioggia, ed, infine, nell’esaltarsi nel gioioso finale.
Grazie all’apporto di tutti gli elementi impegnati, la pagina di Poulenc, già di per sé vitale ed accattivante, leggera ed ironica, dall’andamento vivace, fluido, spesso soggetto a variazioni ritmiche, con quel suo distintivo linguaggio tonale sostanzialmente diatonico ed arricchito da qualche dissonanza, decollava verso un empireo ad altri sconosciuto; certo, l’energia dell’interpretazione dei due fratelli olandesi risultava trainante, ma occorre, ancora una volta, fare i complimenti all’Orchestra del Teatro, capace di entrare nelle pieghe della partitura, soffermandosi con grazia, sensibilità, arguzia e vitalità lì ove era richiesto.
La performance dei due fratelli risultava fresca, possente, sfacciata, eccitante, coinvolgente, in una parola superba, come, del resto, la loro intesa, che appariva assolutamente irraggiungibile, non solo riguardo a fraseggi, ritmo e tempi, ma anche e soprattutto al modo di ‘sentire’ il brano, di ‘intendere’ la musica, di donarsi al pubblico; e quando, salutati da un meritatissimo vero tripudio, tornavano sul palco del Petruzzelli per regalarci un’ulteriore prova della loro capacità di adeguarsi ad ogni stile e partitura con ben due bis, la trascrizione di Igor Roma di una elaborazione dei temi de “Il pipistrello” di Johann Strauss e, soprattutto, sedutisi l’uno accanto all’altro, la splendida trascrizione per pianoforte a quattro mani di Mary Howe della Cantata BWV 208 “Schafe können sicher weiden” di Johann Sebastian Bach, ci tornavano immediatamente in mente le parole di Sir Neville Marriner che a loro dedicò un’affermazione che non si può non sottoscrivere: “Ti rendi conto che quello che fanno non è normale; non si tratta solo di due bravi pianisti che suonano insieme: Arthur e Lucas Jussen percepiscono la più piccola e individuale interpretazione l’uno dell’altro.”
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography