Con il monologo “Bastardo acustico”, in scena al Teatro Kismet di Bari, Antonio Campobasso insegna che “Gnùre is the new black”

Ci sono informazioni che uno spettacolo sperimentale non può dare.
Ad esempio, esso non può avere la funzione sociale di dire chi era Charles Mingus (1922-1979) a chi fino all’entrata a teatro non sapeva chi egli fosse. Non può essere fatto per essere spiegato: richiede il coraggio di essere capito.

È in questa ottica che Antonio Campobasso, col suo progetto “I negri”, porta sul palco del Teatro Kismet, nell’ambito della Stagione 2021.2022 “Tutto cambia”, il monologo “Bastardo acustico”.
Una scena scarna, un tappeto sulle nude tavole, un costume essenziale, un paio di bretelle rosse, unica concessione a un look total black. In una selva di parole tronche che le rende sorelle, anche per la genesi mercantile che le contraddistingue, la lingua barese (anzi, il dialetto triggianese) e la lingua inglese (quella storta dei sobborghi) si mescolano.

Le lingue delle viscere, le lingue della rabbia, della passione, della voglia, dello swing, delle sincopi e delle blue note, dal bop al rapcore, passando per il blues. Quale altra lingua rimette in moto i globuli rossi, richiamando gli echi di generazioni passate? Chi non è tentato di parlare in dialetto quando è incazzato?

Ed era parecchio incazzato, Mingus, “pazzo e arrabbiato”, perché portava il “loso”, la vergogna, di non essere né bianco né nero, né troppo classico, né troppo avanguardistico, di essere, per l’appunto, bastardo e di essere acustico.
Il debutto come violoncellista, l’”istigazione al jazz” per mano di Buddy Collette, “diablus ex machina”, i grandi club per bianchi, dove però l’ingresso per i neri era dalla porta posteriore, l’amicizia con Art Tatum, “sopra ogni Dio al pari di Duke Ellington” e con Billie Holiday e i suoi “strani frutti”. Nel mezzo, mille mestieri per sostenersi, l’incontro con l’hashish e con le donne, appassionate per mestiere o no.

Qui si apre un altro parallelismo, quello tra il sesso e il jazz, in un incedere che concede un lungo tempo ai preliminari, ai cambi di ritmo e posizione (e perché no, anche formazione), una maestria nella tecnica che indulge nell’improvvisazione, perché nel jazz, come nel sesso, non si sa mai come va a finire.
Di entrambi, resta la catarsi e il benessere balsamico dell’energia vitale che ritorna al posto giusto.

Sullo sfondo, Campobasso apre e chiude la questione delle questioni, a motivare la sua rabbia, quella antirazzista: “Non stare a sentire quelli che dicono che la lotta è impari, che non ce la puoi fare… Stronzate! Se ti arruolano nell’esercito ti sbattono chissà dove nel mondo, a fronteggiare milioni di incazzati. Se riesci ad avere il coraggio di rompere il cazzo lì, puoi a maggior ragione averlo qui. È qui che devi risolvere. QUI!”

Beatrice Zippo

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