Lo spettacolo “Facciamo i fantasmi”, liberamente ispirato a “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello, ha chiuso l’annuale laboratorio dei Teatri di Bari e della Compagnia CasaTeatro con i ragazzi del Carcere minorile Fornelli di Bari

Di spettacoli teatrali nella vita mia ne visti una marea e, specie negli ultimi anni – sarà assuefazione, sarà iperesposizione a questo specifico prodotto culturale – non sempre torno a casa contenta, soddisfatta, col pensiero ancora lì.
Ma c’è un’eccezione che non conosce deroghe, ormai avvalorata dalla statistica, avendo visto tre lavori coi medesimi iniziali intenti negli ultimi tre anni ed avendone sempre tratto piacere e interesse.
Questa felice eccezione sono gli spettacoli al Carcere minorile Fornelli di Bari, per un progetto di Teatri di Bari realizzato in collaborazione con la Compagnia CasaTeatro.
Sono quasi 25 anni che Lello Tedeschi tiene lì dei laboratori teatrali in cui coinvolge alcuni dei ragazzi detenuti; laboratori che poi terminano con uno spettacolo fra le mura del carcere, per un pubblico composto da massimo 30 persone che devono prenotarsi per tempo.

Questa volta lo spazio scenico è stato all’aperto, nel cortile del Fornelli, nei pressi del campo di calcetto, tra mura alte e bianche. Le sedie degli spettatori disposte a semicerchio e in scena tre attori. La brava Noemi Alice Ricco, capelli da leonessa e un linguaggio del corpo che parla dei suoi anni di esperienza in ambito teatrale. Davide Sgamma, allievo di Lello Tedeschi da qualche anno, una presenza scenica strepitosa, una simpatia e bravura davvero sorprendenti, e, ultimo ma non ultimo, Haisè, ragazzo tunisino di 16 anni, detenuto, che tornerà libero a luglio.

Lo spettacolo è andato in scena nei giorni caldissimi del 23-24-25 giugno 2021 e si intitola “Facciamo i fantasmi“, liberamente ispirato a “I Giganti della Montagna“, ultimo e non terminato lavoro di Luigi Pirandello, con altre diverse incursioni autoriali, tra cui Samuel Beckett.

L’esperienza di assistere a uno spettacolo teatrale in carcere è qualcosa di totalmente diverso da tutto il resto, si mescolano curiosità, interesse, una specie di morsa allo stomaco, gli occhi che si guardano intorno cercando di intuire come si vive in quel luogo, si viene catapultati nel sistema di regole interno che impedisce agli spettatori, per esempio, di portare con sè all’interno cellulari e borse.
E poi l’effetto straniante di osservare recitare i ragazzi di dentro, domandandosi perchè sono dentro, cosa li aspetta fuori, aver voglia di abbracciarli e commuoversi per la loro bravura.

Haisè è stato bravissimo nell’esprimersi nella sua lingua madre, il tunisino, lingua sconosciuta ai più, ma così evocativa, impalpabile alle nostre orecchie, una lingua fantasma alla nostra comprensione, in cui, ad un certo punto dello spettacolo, ha raccontato come è arrivato qui in Italia. Noi non abbiamo capito niente ovviamente, ma in realtà abbiamo capito tutto dai suoi occhi fissi, dalla sua voce stabile, dal suo corpo giovane e dalle sue braccia larghe che da un lato indicavano la vita, dall’altra la morte, le uniche due scelte che abbiamo nelle circostanze difficili, drammatiche, dolorose, scegliere tra la vita e la morte.
E questo stratagemma drammaturgico, per me, è stato geniale perchè ha assicurato il pudore e il rispetto, a scapito della morbosità, e ha donato un senso della poesia e del sublime davvero sottile e speciale: è stato in questo momento dello spettacolo che mi sono detta “questo è teatro“.

E il teatro è là dove la mente non vaga per pensieri domestici, ma sta ferma ad osservare e ascoltare cosa succede sul palcoscenico, al riparo della quarta parete, nell’impossibilità di intervenire e completamente focalizzati e rapiti dalla storia, dagli eventi scenici. E’ quel momento di sospensione interiore, sono seduta, sono qui, ma sono anche da un’altra parte, sono in uno spazio fantasma, immaginario.

Facciamo i fantasmi quando siamo qualcosa di più del nostro copro, quando intercettiamo la nostra anima, quando la gente non ci vede, quando la nostra storia ha bisogno di essere raccontata nella nostra lingua madre, quando spariamo a un pallone immaginario e lo vediamo cadere per terra e poi riappare, quando ci esprimiamo in un dialetto stretto fatto solo di suoni e tutti ci capiscono, quando riusciamo a vedere l’anima degli altri, quando siamo rinchiusi, quando usciamo e non sappiamo cosa ci aspetta.

Uno spettacolo riuscitissimo, bello, perfetto, con musiche di anni passati e scenografia e attrezzeria quasi zero. Ma del resto, la scenografia ce l’avevamo tutta intorno, le pietre bianche delle mura di cinta del Fornelli che abbiamo vissuto per un paio d’ore, anche noi apparsi lì come fantasmi del mondo di fuori, sudati e accaldati.

Alida Melacarne

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