Io, delusa nelle aspettative da “La vita davanti a sé”, il film evento di Edoardo Ponti con Sophia Loren girato a Bari

Sono certa che qualcuno sta portando avanti degli studi seri, serissimi, sulla vita dei single al tempo della pandemia; uno studio che approfondisca quali sono le conseguenze della solitudine forzata in casa, della carenza di contatto fisico, della messa in stand by della speranza di innamorarsi, di incontrare qualcuno.
Nel frattempo, però, le persone che vivono sole, che non hanno legami sentimentali o un gatto, né congiunti che non siano i genitori, si organizzano come possono, in preda ad ancestrali istinti di sopravvivenza darwiniani.

Se la vicinanza ci è vietata, escogitiamo modi per sentirci vicini.
Ed è quello che è successo a me e una mia amica lo scorso fine settimana.
Nella vita normale ci saremmo accordate per una passeggiata pomeridiana in centro, tra librerie e vino rosè sulla Muraglia, poi magari un cinema, tutto condito da chiacchiere serratissime.
In questa nuova esistenza piena di regole e colori caldi da rispettare, dove più il colore è caldo e più è fredda la componente di socialità a cui attenersi, io e la mia amica ci siamo inventate un sistema per trascorrere insieme il sabato sera: abbiamo deciso di guardare, ognuna dal proprio divano, il film “La vita davanti a sé”, un film girato a Bari, con Sophia Loren, disponibile dal 13 novembre sulla piattaforma Netflix.
Abbiamo premuto play alle ore 20 e 15, cellulari in mano e Whatsapp attivo per commentare. Eravamo piene di aspettative: Bari non è una città da immaginario cinematografico, i film girati qui sono pochi (e ameremo per sempre la Bari di Alessandro Piva, a tinte forti, poetica e struggente, una città che non perdona) e abbiamo riposto molte speranze in un’operazione dal respiro internazionale.

Lo dico subito: siamo rimaste deluse, ci aspettavamo di più.
Di Bari sono state fornite per lo più immagini aeree, secondo i dettami dell’ultima moda delle riprese con i droni, immagini “spettacolari” (che riprendono non solo Bari, ma anche Trani e Santo Spirito); la città vista dall’alto è stupenda, certamente, ma avremmo voluto vederla più da vicino, respirarne gli odori, sentirne le voci, percepirne l’atmosfera.
Abbiamo però amato moltissimo l’appartamento di Madame Rosa con i suoi arredi vintage, gli oggetti anni ’80 e ’90 sapientemente collocati a creare un’atmosfera di accumulo e disordine controllato, le carte da parati a fiori, la veranda inondata di luce, l’androne così tipicamente barese che si affaccia su un punto della città poco convenzionale, sotto il ponte di Corso Cavour, di fronte il Liceo Scacchi.

La trama si dipana in modo poco regolare, e mostra proprio dei buchi narrativi e delle trovate non proprio riuscite e non approfondite bene; la questione razziale ci è parsa affrontata con stucchevolezza e poca convinzione, eppure abbiamo amato moltissimo Momò, il bambino di colore che viene affidato a Madame Rosa, i suoi occhi grandi, la sua rabbia e il suo essere così adulto tra adulti piccoli e disonesti.

E poi, ovviamente, Sophia Loren: su di lei c’è poco da dire.
La vediamo attraverso gli occhi innamorati di suo figlio, Edoardo Ponti, regista del film: una donna di 86 anni, ancora bellissima e statuaria, che cammina lenta, occhi profondissimi pieni di rughe, ma con l’immancabile matita nera a sottolinearne lo sguardo. Lei. da sola, riempie tutto lo schermo, è piena e credibile nell’interpretare una donna in avanti con gli anni in una vita normale, come potrebbero esserlo le nostre mamme e le nostre nonne; ci fa dimenticare l’immagine di lei a cui siamo abituati da diversi anni di star del cinema internazionale quale lei è.
Ecco, quello che il film ci restituisce è finalmente l’attrice, colei che interpreta dei ruoli, la sua dimensione umana, la fisiologicità del corpo, e non l’icona del cinema, quella dei giornali patinati e delle serate degli Oscar.

Forse questo film è proprio un omaggio a questa madre così famosa; è come se suo figlio ci dicesse: guardatela, è lei, è così, ha 86 anni, è bravissima, è stupenda, è mia madre.
Osservare la vecchiaia in Sophia Loren è un’esperienza straniante, è fare i conti con la biologia, è sovrapporre tante immagini di lei e arrivare poi a queste ultime, dirsi che il tempo è una cosa che esiste davvero, che si attacca addosso e fa il suo lavoro in modo lento e inesorabile, in modo struggente, odioso, perfetto.
Questo è indubbiamente il pregio fortissimo di questo film non proprio riuscito, di cui però sono apprezzabili le intenzioni.

Oggi è sabato, la Puglia (e Bari) sono ancora in zona arancione, niente passeggiata in centro, niente aperitivo vista mare, fra l’altro piove.
Ma sarà il secondo sabato con film condiviso con la mia amica, sempre alle 20 e 15, posizionate sui nostri divani; non sappiamo ancora quale film guarderemo, dobbiamo ancora deciderlo, ma mi sa che abbiamo deciso che questi sabato sera dal gusto “Covid” li trascorreremo così, a guardare i film.
Insieme.

Alida Melacarne

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