La serie tv “Suburra”: il potere ipnotico di una storia egregiamente raccontata

Se di questa cosa non scrivo so che poi me ne pento.
Non perché sia di chissà quale importanza, ma sono giorni che sento una cosa allo stomaco, sento le mani che mi tremano, sento che ho un’emozione fortissima da condividere. Ed è l’emozione che si prova quando si è sotto l’incantesimo di una storia.

Tutto inizia quando, a fine ottobre, cado e mi ingessano una gamba: un mese intero da passare a casa, sul letto o sul divano, senza fare sforzi, senza camminare. Ok, mi sono detta, leggerò almeno 5 o 6 libri grossi, di quelli impegnativi che, dicono, possano essere letti solo se stai in galera o, appunto, con una gamba ingessata. Ma le cose stanno andando diversamente, come spesso succede: tu stai lì a dire farò questo, questo e quello e invece …
Ho l’abbonamento sia a Netflix che a Prime Video, ma non sono una divoratrice di serie tv. Vai a capire il perché; oppongo quasi sempre resistenza immotivata a questo fenomeno sociale così diffuso e così amato. Fatto sta che mi sono detta “Dai Ali, le serie piacciono a tutti, tu che sei scema?” “Sì – mi sono risposta – posso anche provarci, ma non esisterà al mondo serie più bella di Orange is the new black o di Anna dai capelli rossi: io, con quelle serie, ho pianto, rendiamoci conto. Non ho voglia di iniziarne una che poi chissà se mi piace, perdo tempo.” “Sì, va bene, ma che ne sai?”, mi incalzavo, autoconvincendomi.
E infatti che ne sapevo io. E così ho scelto del tutto casualmente di iniziare a vedere Suburra per due motivi molto semplici: le puntate erano solo 24 ed è una serie conclusa, inizia e finisce, nessuna attesa. Ok, vediamo questa.

Le tre stagioni che formano Suburra me le sono letteralmente bevute in 5 giorni.
Non starò qui a dire se è una serie fatta bene, se poteva finire meglio, se gli attori sono bravi o no; di queste considerazioni è piena la rete.
Quel che voglio testimoniare è quanto il dispositivo narrativo di questa serie mi abbia totalmente rapita e imbambolata davanti alla tv, tanto da farmi affermare “Basta, voglio vedere Suburra per sempre. Voglio i tatuaggi sul collo, le gonne lunghe di jeans, i capelli cotonati, i denti d’oro, il coltello nella manica di giubbottini optical e damascati e l’eleganza nei sentimenti, la pistola ficcata dietro i jeans, gli occhi azzurri, uno di Alessandro Borghi e l’altro di Filippo Nigro, il sorriso disarmante di Spadino, voglio parlare in romanesco a labbra strette, la camera da letto stile Casamonica, mangiare agnelli e pecore crudi, farmi il segno della croce in fronte col sangue come Manfredi, riflettere sul senso della vita a Ostia, guardando il mare, le macchine grosse, essere come Angelica e non abbassare mai lo sguardo, fare la regina a Roma Nord, entrare nelle stanze dei cardinali tappezzate di rosso e passarla sempre liscia in mezzo alle sparatorie e poi scappare via con Aureliano Adami, anche lui illeso: che ve lo dico a fare?”

Una serie che racconta Roma nei suoi vizi e nella sua violenza, in cui non ci sta un solo personaggio buono, un eroe puro, ma in tutti i personaggi ci sta qualcosa di stupendamente umano come la tenerezza e l’ambizione, l’orgoglio e la vergogna, l’amore e l’odio.
Una serie in cui le iperboli e le fagocitazioni della realtà mettono in scena le esperienze più comuni, quali quella della gestione dei rapporti con i genitori, il desiderio di essere riconosciuti, l’amore omosessuale, il sesso, il bisogno fisiologico del contatto fisico, la lealtà, le bugie, la vita di coppia, la sete di potere, l’orgoglio e il pregiudizio.
Tutto questo in mezzo a pistole, uccisioni, appalti truccati, elezioni comprate, preti e cardinali corruttibili e corruttori, puttane, poliziotti, uomini e donne.

E poi lei, Roma.
La capitale, la città di Giulio Cesare e di Totti, del Campidoglio e dell’edilizia abbandonata, dei pini e del mare a pochi minuti, degli attici e dei campi rom, dell’arredamento minimal e delle camere da letto con stucchi, ori e velluti. La città eterna in cui eterni sono i drammi e i tormenti, gli amori e e le separazioni, le vendette e i desideri.
Roma, “l’anima oscura di questa città, tutto è uguale a duemila anni fa”.

Roma “guarda qua, sto ancora in piedi, come la fenice che risorge dalle ceneri, prendo senza chiedere, è tempo di mietere”. Così la canta Piotta, nelle canzoni che fanno da tappeto sonoro agli episodi, con una canzone diversa per ogni personaggio. Piotta? Aspetta: quello che il “supercafone eccolo qua”, quello che “mai quest’onda mai mi affonderà gli squali non mi avranno mai, quest’onda mai mi affonderà, shalalalalà”? Proprio lui. Ma Piotta è cresciuto, anche lui, come me, sta qui che canta “E’ ora di andare”, la canzone per Spadino, questa canzone che mi sta facendo piangere come una cretina, con lacrime calde e torrenziali, qui da sola sul divano, alle undici di sera, mentre nel fuori arancione di casa mia c’è il coprifuoco e non passa una macchina, mentre ripenso alle volte che ho ballato le sue canzoni quando vivevo al nord facendo la mossa del surf nei circoli Arci, alle volte che l’ho ascoltato in macchina, direzione sud della statale 16 per andare al mare, all’allegria contagiosa che mi trasmetteva e alla malinconia e allo struggimento che mi trasmette ora, adesso. Io sono diventata adulta nel frattempo, ed anche lui, Piotta.

Poi Suburra è finita.
Sono stata un paio di giorni con i sintomi di una specie di sindrome dell’abbandono.
Sì, sedotta e abbandonata.
Ho ripreso in mano uno di quei libri grossi che avevo iniziato a leggere, ma niente, la testa sempre a pensare a Suburra, un pensiero non ossessivo, ma parente al tormento, un pensiero accompagnato dal batticuore. Oggi mentre mi preparavo da mangiare ascoltando la colonna sonora della serie in cuffia, ho realizzato che con Suburra io sono stata sotto l’incantesimo di una storia, incantesimo che è sempre lo stesso, dai tempi di Sheherazade. Tu stai lì, ferma e immobile, con gli occhi spalancati, le orecchie assetate, in bilico tra il voler sapere tutto e voler rimanere lì per sempre, in ascolto.

Che droga è questa delle storie? E’ una droga potentissima, una specie di sogno lisergico sott’acqua in cui si fluttua con il ritmo delle parole e delle immagini che portano in angoli sconosciuti, ma familiari. E’ un gioco degli specchi, che fa sì che ci riflettiamo senza riflettere in personaggi che non ci assomigliano per niente, ma che parlano a parti di noi molto profonde, di canzoni di luoghi in cui non viviamo, ma di cui conserviamo un’antica memoria. Questa delle storie deve essere una faccenda che ha che fare con la nostalgia, con l’istinto di sopravvivenza, con il fuoco che riscalda e tiene insieme le persone, con la fuga e con il rimanere. E’ una faccenda atavica che inizia con gente che le raccontava per strada e continua ancora adesso in forme diverse, più sofisticate. E’ quel bisogno antropologico, naturale, innato di emozionarsi, sognare, imparare, di abbandonarsi completamente e farsi accarezzare.

Di questo incantesimo delle storie non riesco a farne a meno. Non tutte mi convincono, molte le detesto, certe altre non mi prendono, mi arrivano solo nel cervello, ma non parlano al mio corpo, che rimane freddo e distante. Ma certe volte, accade il miracolo della storia giusta, quella che mi conquista e non mi fa pensare ad altro, quella che mi fa provare delle emozioni e mi fa ridere e piangere, che si tratti di principesse o di gente che si ammazza, non importa; se sono quelle giuste per me il mio cuore e il mio corpo le riconosceranno.

Alida Melacarne

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