L’attitudine alla notte come condizione dell’anima: la straordinaria performance del Quartetto di Roberto Ottaviano a Bari

“Signore, di giorno io sto sempre sulla torre di vedetta e tutte le notti sono in piedi nel mio posto di guardia.” “Sentinella, quanto resta della notte?” “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete interrogare, interrogate pure; ricominciate; venite!” (Bibbia – Isaia 21, 8-12)

“Era il solo modo per vedere veramente una persona, qualsiasi persona. Spogliarli, per modo di dire. Ritagliarli via da tutto. Isolarli, appunto. E cercare l’essenza, la composizione autentica, la scritta quasi invisibile in fondo ai medicinali.” (Fruttero & Lucentini)

Vivere la notte non solo come una – spesso inutilizzata – tranche delle nostre frenetiche giornate, e nemmeno esclusivamente come innato, incantevole e sensuale simbolo di astrattezza e mistero, ma piuttosto come una condizione dell’anima, il (non) luogo della perenne – e per lo più irrisolta – esplorazione, della costante ricerca, da un lato, di una più stabile serenità, fosse anche onirica, a fronte del vuoto angosciante e del rumore assordante che permea le nostre contraddittorie esperienze umane in una società apparentemente perfetta e definitivamente spietata, e, sull’altro versante, di un futuro migliore, l’attesa di un nuovo e più promettente giorno che porti con sé un sole accecante e ardente, che possa finalmente scaldare i cuori, lenendone il dolore sino a – se possibile – rimarginarne e cicatrizzarne le ferite.

Poco più di quarant’anni fa, le geniali penne di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, probabilmente la più celebre coppia di giallisti italiani, riuscirono incredibilmente a dare corpo a questa accezione notturna, pubblicando quell’indiscutibile ed ineguagliabile capolavoro letterario che risponde al nome di “A che punto è la notte”, il cui titolo è una citazione diretta del noto passo biblico riportato in apertura d’articolo, da cui poi, nel 1994, l’altrettanto geniale Nanni Loy realizzò una miniserie Rai che, a fronte di un cast stellare che annoverava anche l’alter ego bergmaniano Max von Sydow, recentemente scomparso, godeva di un magnifico quanto indolente e malinconico Marcello Mastroianni nel ruolo del protagonista, il commissario Santamaria. Con il loro quinto romanzo, forse come non mai nella loro quarantennale produzione, Fruttero e Lucentini giungevano a fondere la loro altissima cifra stilistica, rivelatasi soprattutto in quella impareggiabile capacità di utilizzare la lingua italiana con una raffinatezza infinita, con una trama che, sebbene intricata, avvinceva sin dalle prime parole, fotografando alla perfezione quella Torino degli anni ’50/’60 in cui coabitavano tutte le contraddizioni degli anni del boom economico e, soprattutto, sembrava confluire l’intera gamma dei sentimenti umani, alla mercé di una comunità capace di accogliere indistintamente amore e odio, perdono e vendetta, verità e menzogna, in una perfetta amalgama che, senza rinunciare a gettare brevi ma incisivi flash di riflessione sui misteri della psiche umana, esaltava la caratteristica prosa disarmante e fluida del fantastico duo, quello stile unico ricco di erudizione ed ironia, ma anche e soprattutto di riferimenti tanto alla cultura alta quanto a quella di massa.

La medesima magnifica attitudine di F&L nel raccontare la notte attraverso le sensazioni, i profumi, le sfumature, le percezioni, permeate d’immanenza e di trascendenza allo stesso tempo, per di più riuscendo a declinare il tutto in splendide armonie, l’abbiamo ritrovata nella sorprendente performance che Roberto Ottaviano ha regalato al pubblico dell’associazione Puglia Cultura e Territorio che, pur nel rispetto delle restrizioni a causa del Covid-19, assiepava lo spazio eventi dell’Hotel Terranobile Metaresort di Bari. A capo di una formazione che annoverava altri tre tra i migliori esponenti del nostro jazz, potendo contare sulla fisarmonica di Vince Abbracciante, il contrabbasso di Giorgio Vendola e la batteria di Fabio Accardi, il Maestro Ottaviano, proprio ispirandosi a quella pietra miliare della narrativa, ha, da par suo, assemblato una serie di composizioni di un passato per lo più prossimo, accomunate da quella “propensione notturna” di cui si è detto, spesso vissuta in prima persona dagli stessi autori; venivano così citati Tomasz Stanko, con “Gama” in apertura di concerto ed “Alina” nel suggestivo bis, Kenny Wheeler con “Kind folk”, Kristof Komeda con la magnifica “Rosemary’s baby lullaby”, tratta dalla colonna sonora del capolavoro cinematografico di Roman Polanski, Lucilla Galeazzi con “Quante stelle nel cielo e con la luna”, Bill Frisell con “Strange meeting”, Ariel Ramirez con “Alfonsina y el mar” ed il divino Luigi Tenco con “Averti fra le braccia”. Ne scaturiva un set entusiasmante, a dir poco esaltante, che non conosceva un attimo di tregua o di flessione, in cui la musica, dopo il periodo di lockdown epidemico, riconquistava il proprio linguaggio universale, abbattendo mentalmente ogni barriera per il solo piacere di condividerne le emozioni, così da ritrovarvi la speranza ed il coraggio per ricominciare.

Una serata, dunque, ancora una volta da incorniciare per il nostro Roberto Ottaviano, sax d’oro ed eccelso direttore d’orchestra di un ensemble di prima grandezza, in cui ritrovavamo non solo quattro splendidi musicisti, ma anche quattro magnifiche menti pensanti; grazie a loro, i brani proposti, forti di arrangiamenti di rara bellezza, non si manifestavano mai solamente come gustosi esercizi di stile, ma si aprivano sempre in una perfetta finestra sonora, trascinando l’ascoltatore in luoghi altri e permettendogli di recuperare tempi interiori più consoni e snodi dell’anima che si credevano definitivamente smarriti, facendo sì che si materializzasse davanti ai nostri occhi quella magia auspicata in un altro passaggio dell’opera di Fruttero e Lucentini: “Per un momento la notte non ebbe osservatori, infimi o eccelsi, ma restò non vista o invisibile, non pensata o inconcepibile, ferma nella sua riassorbita pienezza.

Pasquale Attolico
Fotografia in copertina di Paola Zaccheo

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