“Dove le parole finiscono, inizia la musica.” (Heinrich Heine)
Ci sono concerti che non è semplice recensire, a causa della loro capacità di trascendere il significato stesso di performance musicale e di stagliarsi come il più puro ed incontaminato dono di un musicista ai suoi ascoltatori, al suo pubblico, alla sua gente, dando a tutti l’opportunità di accedere nella mente, nel cuore, nella vita stessa dell’artista, di sentirsene partecipi come se ci si appartenesse indissolubilmente. In questi – invero rarissimi – casi, anche la musica si fa linguaggio nuovo ed evanescente, fluido in divenire che travolge e cattura, sino a non concedere altra possibilità che esserne parte, quasi costringendo a “sentirla” nel profondo, attraversarla e lasciarsene attraversare, consentendole di trascinarci in un altrove, in un non luogo lontano e remoto, eppure talmente familiare da riuscire a rievocare emozioni che credevamo definitivamente disperse, rintracciandole nei più reconditi angoli della nostra anima.
L’evento con cui, in un gremito – a riprova della possibile sconfitta del fantomatico “nemo propheta in patria” in presenza di talento puro – Teatro Forma di Bari, Kekko Fornarelli ha chiuso il trionfale tour che ha fatto seguito alla pubblicazione di “Abaton”, quinto album della sua carriera e primo prodotto dell’etichetta discografica “Eskape” da lui stesso fondata, ha avuto proprio questi tratti; anzi, crediamo che il pianista barese abbia proprio concepito questo incontro quasi come una confessione, una rivelazione, la condivisione di quel che è stato il suo percorso sinora, tramite il racconto delle distanze – fisiche, ma, anche e soprattutto, psicologiche – che ha a tutt’oggi ricoperto nel suo cammino iniziatico.
Presentando ogni brano con dovizia di personalissimi ed intimissimi particolari, Fornarelli ci ha reso partecipi di quell’attimo in cui il suo spirito ha creato le melodie che abbiamo imparato ad amare, lasciando che anche noi ci abbeverassimo alla fonte stessa di una musica che, come prevedeva Jean Paul Richter, può divenire “il chiaro di luna nella notte cupa della vita”, prendendoci per mano come Virgilio con Dante e conducendoci nel suo inferno e nel suo paradiso, acconsentendo a farci partecipare alle sue gioie ed ai suoi dolori, ad aderirvi.
In tal modo, i brani proposti, pur consegnandoci una caleidoscopica summa delle tante anime del musicista, completata finanche da un breve estratto da quel luminoso gioiello che è il progetto “Shine”, condiviso con il cantante Roberto Cherillo, anch’egli presente sul palco del Forma, è indubbio che si siano aperti ad una nuova visione e ad un inedito ascolto, grazie anche – e soprattutto – all’apporto della splendida Orchestra Artemisia, ensemble d’archi di quindici musiciste (violini: Serena Soccoia, Eliana de Candia, Flavia Quaranta, Miriam Campobasso, Liliana Troia, Arianna Di Savino, Annamaria D’Angelico, Gabriella Altomare, Simona Storelli; viole: Ester Augelli, Luciana Palladino, Francesca Indellicato; violoncelli: Anila Roshi, Anna Fasanella; contrabbasso: WU Hsueh-Ju) diretto dal Maestro Leo Gadaleta, cui pure si devono tutti gli ottimi arrangiamenti e le affascinanti riscritture orchestrali, che, assieme ai fedelissimi Federico Pecoraro al basso e Dario Congedo alla batteria, formavano una line-up di altissimo livello.
E, su tutti, il pianismo attraente, coinvolgente, essenziale, necessario di Kekko, cui si aggiungeva la sua acclarata maestria nell’utilizzo dell’elettronica, mai invasiva né aliena al contesto, ma assolutamente confacente alle dinamiche espresse ed utile a velare di ulteriore lirismo le versioni orchestrali; la sua inusuale sensibilità, quella sua incessante ricerca della nota perfetta, di un suono che non sia esclusivamente mera e pura estetica fine a se stessa né sfoggio di tecnica esecutiva, era, ancora una volta – e, forse, mai come in questa occasione – foriera di vibrazioni positive, di una musica che riferiva dei mondi lontani visitati dalla sua illimitata intuizione e che si palesava a noi trasformandosi in un imprescindibile farmaco, un balsamo, “un massaggio serafico – come amava dire Gesualdo Bufalino – sulle cicatrici dell’anima”.
Pasquale Attolico
Foto di Marina Damato