Joker o del triangolo drammatico

Is it just me, or is it getting crazier out there?

C’è l’evaporazione del padre, c’è la realtà sostituita dalle immagini della realtà, c’è la diffidenza, il problema della monnezza,la violenza facile, la pistola facile, il politico che risolverà i problemi, lo show ruffiano per stare allegri, l’odio dei poveri, l’odio dei poveri (non è una ripetizione), i tagli al welfare, la confusione tra mondo psichico e realtà esterna, l’attesa della brutta cosa che sta per succedere, il segreto patogeno, la vita come commedia e come tragedia.  Ancora, c’è “Re per una notte”, “Taxi driver”, “L’uomo che ride”,e alcuni ci mettono dentro anche Pogo il clown, la strage di Aurora, gli estremisti Incel (ma sono quelli che da noi si definirebbero sfigati?). Ci sono così tante cose, e tante altre se ne mettono, nel film di Todd Phillips, che viene quasi da dire: troppe.

Nel provare a dire qualcosa su un film che sembra costruito ad arte per dividere (capolavoro o film mediocre? Incita alla violenza o aiuta a capirne le dinamiche? È ideologico o post-ideologico?), terrò presente la lezione di Anthony Lane “(Qualunque strale estremo lanciato contro il film cade direttamente nella sua trappola, impigliando la nostra attenzione)”.

Tutto molto borderline, comunque.

Tanto che mi è venuto in mente il triangolo drammatico (Karpman,1968).

Il triangolo drammatico è un modello di lettura delle relazioni compromesse da un disturbo dell’attaccamento, nel quale sono giocati i ruoli di vittima, persecutore e salvatore, spesso con oscillazioni e inversioni di ruolo, tra i protagonisti di una vicenda relazionale. Karpman, con il suo modello, ha voluto offrire esempi ed esemplificazioni di quello che per Eric Berne era Gioco: “una serie continuata di transazioni complementari ulteriori, che progrediscono verso una conclusione prevedibile e ben definita, chiamata tornaconto finale”.

Una serie continuata di transazioni ulteriori: Joker e la madre, Joker e l’assistente sociale, Joker e il padre possibile, Joker e Murray Franklin.

Nella rêverie della madre, Arthur è l’uomo che salverà il mondo con una risata. Compito un poco più arduo di quello assegnato dal padreterno a Gesù (si sa che far ridere è l’arte più difficile), considerando anche che qui non c’è nemmeno un umile Giuseppe a far da padre e che rispetto a 2000 e passa anni fa, i persecutori sono aumentati. Cominciano i ragazzini a toglierti la dignità se non stai attento (la scena iniziale del film), e poi è tutto un crescendo di persecutori, violenti, mascalzoni, opportunisti. E bambini con un destino riconoscibile e già assegnato dalle agiatezze di classe, come il piccolo Bruce Thomas Patrick Wayne.

Il rischio del salvatore del mondo è allora quello di ritrovarsi vittima, scivolare nell’auto-indulgenza, un crollo depressivo, (quella risata pseudo-bulbare, così vicina ad un pianto disperato). Su Artribune, Christian Caliandro notava: “Il Joker di Nolan-Ledger non voleva niente, era niente, portava niente; e di sicuro non piagnucolava. Dieci anni dopo, anche la ribellione immaginaria è stata addomesticata. Il malessere è stato addomesticato.” I tagli al welfare rendono anche la depressione un lusso con costi troppo alti. Il salvatore potrà mai essere allora il conduttore opportunista di uno show di successo, visto che il  padre (forse), non vuole riconoscere il (forse) figlio?

Tra salvatori potenziali e poi deludenti e persecutori crescenti, la brutta soluzione allora arriva, ed è molto brutta, ed è molto facile, come i populismi, i fascismi (anzi i movimenti demagogici interclassisti a base xenofoba, come direbbe Luciano Canfora).

Diventare persecutore. Strapparsi il cuore, un sorriso fatto di sangue e picchiare duro. “Sarebbe inutile raccontare la barzelletta” è la frase che sancisce la fine delle belle illusioni.

Se questo ho estratto da “un vero film mascherato da cinecomic” (Todd Phillips dixit), allora, per una volta, fuori dai miei schemi, estraggo anche una mia personalissima morale: “Evitiamo le soluzioni facili, anche quando sono dettate da tanta sofferenza, se in realtà non risolvono un bel nulla”.

Pietro Buscicchio

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