Elle di “La Voix Humaine” e Santuzza di “Cavalleria Rusticana”: due eroine sublimi e perdenti messe a confronto dalla Fondazione Petruzzelli

Motivi potentissimi e quasi sempre segreti sono all’origine di mille particolari che compongono la bellezza brulicante dell’universo. È molto difficile rendere bella la felicità: una felicità che è solo assenza di guai è una cosa brutta. Una singolarità può sembrarci gratuita, ma la sua forza espressiva nasconde sempre delle radici.” (Jean Cocteau)

Cosa accomuna “La Voix Humaine” di Francis Poulenc e “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni, i due atti unici, inseriti congiuntamente nel cartellone della Stagione Lirica 2019 della Fondazione Petruzzelli, in scena sino a tutto il 27 ottobre? Innanzitutto – ça va sans dire – la certa catalogazione di entrambe le opere tra i capolavori assoluti della musica di tutti i tempi, ma crediamo possano essere accostate soprattutto per le similitudini tra le due protagoniste, ambedue eroine perdenti, leonesse fiere pur essendo mortalmente ferite, condottiere sconfitte e disperate, vittime delle convenzioni sociali racchiuse nei propri ancestrali riti, donne disilluse dall’aver anelato una felicità a lungo rincorsa, braccata, incalzata, finalmente raggiunta ed, infine, nuovamente sfuggita, svanita, dileguatasi, come il più bello dei sogni celestiali deve fare all’alba di un triste ed umano risveglio.

Definita dal suo autore “une tragédie lyrique”, “La Voix Humaine” altro non è che la trascrizione in musica dell’omonimo monologo teatrale (ne ricordiamo la memorabile trasposizione cinematografica di Roberto Rossellini nel film del ’48 “L’Amore” interpretato da una divina Anna Magnani) creato da Jean Cocteau, amico di lunga data del compositore che, affascinato dal soggetto, scrisse la partitura, per sua stessa ammissione, “en veritable état de transe”; in effetti, il testo di Cocteau sembrava nato per essere rivestito di note e, soprattutto, cantato, con quelle frasi corte, spezzate, incerte, perfetta rappresentazione dell’invisibile ed altalenante flusso di sentimenti e di emozioni, che contengono in sé una musicalità innata, assolutamente compiuta per suspense e pathos, e Poulenc, per immergerle, come lui stesso scrive all’inizio dello spartito, “nella più completa sensualità orchestrale” che sostenga “la voce del soprano lirico colta nel suo puro timbro originario, fatta di tenerezze intime, di mezze tinte, di soavi oscillazioni nell’ambito dello stesso registro”, crea una sorta di flusso continuo di canto, senza arie, che passi dal recitar cantando al declamato, correlato di incisi orchestrali che possano fungere da colonna sonora del drammatico racconto della più spietata e classica fine di un amore: al telefono. Ed è proprio quel colloquio telefonico, che conosceremo solo per voce della donna, Elle, mentre la presenza dell’amante all’altro capo del filo è solo ipotizzata, spesso interrotto ma sempre ripreso perché nessuno dei due amanti trova il coraggio di dire la parola definitiva, a fare da metronomo impazzito degli ultimi cinquanta minuti di una storia – e forse di una vita – oscillante tra affetti e risentimenti, rimpianti e rimorsi, menzogne e verità.

Nell’allestimento scenico della Fondazione Teatro Comunale di Bologna, la essenziale quanto geniale regia di Emma Dante, complici le scene di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino e le luci di Cristian Zucaro, emoziona già di per sé, collocando Elle in uno spazio che parrebbe essere una camera da letto d’antan, ma che la presenza di un accecante monocromatismo bianco e di pareti imbottite disveleranno essere una stanza di ospedale psichiatrico, visitata, in aperto richiamo al genio visionario kubrickiano di “Shining”, da due infermiere gemelle e da un medico nonché dai fantasmi di un recente ma già alieno passato, rievocati da una mente ormai al limite della schizofrenia, condannata a prendere atto che la tanto sospirata “vie en rose” cantata da Edith Piaf – cui crediamo si debba il colore degli abiti delle immagini mute che giungono dai ricordi – sia solo un’altra mistificazione, prima di decidersi – un’altra delle geniali trovate della Dante – ad attuare i suoi propositi di omicidio / suicidio – eventi solo allegoricamente vagheggiati o realmente verificatisi precedentemente all’azione teatrale? -, i soli che sembrano poterle donare nuovamente la pace perduta.

Non vi è chi non veda come tutto questo groviglio di sentimenti e questa complessità di stati d’animo possano essere trasmessi al pubblico solo grazie all’Arte fluida e raffinata di una straordinaria interprete, che sia, in una, cantante ed attrice di ipnotica padronanza scenica e vocale: ebbene, Anna Caterina Antonacci è Elle, meravigliosa tanto nella recitazione quanto nel canto, strumento perfetto per la trasmissione allo spettatore dell’evento, dell’azione, della impervia struttura di suoni e di colori pensata da Poulenc che, attraverso lei e l’ottima prova offerta dall’Orchestra del Teatro Petruzzelli e dal direttore Renato Palumbo, raggiunge l’apice del suo vigore comunicativo, con una forza d’impatto deflagrante, immediata, totale, che ha determinato la lunghissima e giustissima ovazione finale, soprattutto nei confronti dell’interprete.

Invero, la Dante ha di recente affrontato anche la regia della “Cavalleria Rusticana”, ma, pur non nascondendo che ci avrebbe fatto piacere vedere la sua versione, non crediamo di poter criticare la scelta della Fondazione Petruzzelli – supponiamo dettata anche da motivi affettivi – di replicare il proprio allestimento scenico del 2010, nuovamente affidandone la regia al nostro Michele Mirabella.

Il dramma di Santuzza, sedotta ed abbandonata da Turiddu, che, pur di non lasciare il suo amato tra le irretenti braccia della Gnà Lola, sceglierà di dargli morte certa per mano del marito di quest’ultima, Compar Alfio, se deve al genio di Giovanni Verga la coinvolgente scrittura, ispiratrice del libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, è stato di certo reso immortale dalle melodie che il Maestro Mascagni, livornese di nascita, compose in quel di Cerignola, allestendo un’esemplare fucina di emozioni di immediato impatto e di grande effetto, contenitore pregiato di alcune tra le più belle melodie di sempre, di cui lo splendido “Intermezzo” è fulgido esempio, splendidamente rese da una più che superba prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro Petruzzelli, quest’ultimo come sempre preparato da Fabrizio Cassi, magistralmente diretti dal Maestro Renato Palumbo. Ebbene, la lineare regia di Mirabella, rispettosa dei dettami degli autori almeno quanto i costumi di Giuseppe Bellini, recuperava tutta la drammaticità del pentagramma, sottolineando – ci pare – la disperata impossibilità di Santuzza di riscattarsi, di poter essere raggiunta da un gesto salvifico tanto terreno quanto trascendentale che, al contrario, le viene negato dalle insormontabili tradizioni sociali, ben rappresentate dalla voluminosamente ingombrante, se non minacciosa, scalinata di accesso alla Chiesa, creata da Nicola Rubertelli ed illuminata da Franco Ferrari, la cui vetta può essere conquistata anche da una storpia ma non dalla scomunicata Santuzza. In tale contesto, risaltavano le tante qualità del cast, a partire dalla bravissima Carmen Topciu (Santuzza), i possenti Alberto Gazale (Alfio) e Walter Fraccaro (Turiddu), Maria Luisa De Freitas (Mamma Lucia) ed Elena Borin (Gnà Lola), tutti salutati da – spesso invero evitabili – applausi a scena aperta del pubblico assiepato in ogni ordine di posto, tra cui spiccava la familiare figura del Maestro Renzo Arbore, la cui presenza sarebbe bastata, da sola, a dare lustro all’intero evento.

Pasquale Attolico

Foto di Clarissa Lapolla

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