
No other land di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal, premiato alla Berlinale 2024, agli EFA (European Film Awards) 2024 e vincitore come Miglior documentario agli Oscar 2025 è un film brutto.
Sono andata vederlo per l’unica proiezione – unico giorno, unico orario – promossa dal Cinema Il Piccolo di Matera insieme al collettivo Free Palestine e il Comitato per la Pace di Matera; quando sono arrivata c’era già una folta fila di persone che aspettavano pazientemente di pagare il biglietto, più alto del solito, per sostenere le famiglie palestinesi sfollate, non tutti sono riusciti ad entrare, io per fortuna sì.

Basel Adra, giovane attivista palestinese, combatte fin dall’infanzia contro l’espulsione di massa della sua comunità da parte dell’occupazione israeliana a Masafer Yatta, villaggio situato nel governatorato di Hebron, in Cisgiordania, dove le forze di difesa istraeliane distruggono case e scuole per costruire un poligono di tiro e una zona di addestramento militare. Un’ingiunzione della Corte suprema di Israele ha infatti respinto un ricorso pluridecennale dei suoi abitanti contro questa decisione, non riconoscendo l’esistenza di Masafer Yatta sebbene quest’ultimo sia attestato sulle carte geografiche dal XIX secolo. Essendo parte della “Zona C” della Cisgiordania, l’area è sotto il completo controllo civile e militare dell’IDF, che limita arbitrariamente gli spostamenti della popolazione e arresta chi si espone in proteste pacifiche contro l’occupazione, nel film sono stati inseriti anche filmati d’archivio girati dalla famiglia Adra nell’arco di vent’anni (fra cui una visita di Tony Blair al villaggio nel 2009). Forte di questa tradizione, Basel decide di iniziare a filmare dopo l’arrivo delle prime ruspe nell’estate 2019 fino a pochi giorni prima del 7 ottobre 2023: Basel documenta la graduale cancellazione di Masafer Yatta, mentre i soldati dell’IDF distruggono le case e le scuole, tranciano i fili della rete elettrica, riempiono i pozzi di cemento, realizzando il più grande atto di trasferimento forzato mai effettuato nella Cisgiordania occupata.

Durante le demolizioni Basel incrocia il suo cammino con Yuval, un giornalista israeliano che ha rifiutato di entrare nei servizi segreti, che si unisce alla sua lotta e per circa cinque anni combattono insieme contro l’espulsione degli abitanti di Masafer Yatta, avvicinandosi sempre di più e rimanendo però sempre ben coscienti della diversa libertà di cui godono, o meglio, rimanendo consapevoli che Yuval è libero, Basel no: Basel vive sotto una brutale occupazione militare, Yuval è libero e senza restrizioni, Yuval è sottoposto al diritto civile, Basel a quello militare israeliano. Al di là delle violenze e oltre la frustrazione e la rabbia c’è l’amicizia di due ragazzi della stessa età che provano a portare avanti un atto di resistenza creativa contro l’apartheid in corso in Palestina, che usano i social media per denunciare i soprusi del governo israeliano e la sofferenza dei civili palestinesi, nella ricerca di un cammino comune verso l’uguaglianza e la giustizia, due parole che in quelle terre non hanno più nessun senso.

Ma No other land non ha la bellezza del bianco e nero di Scindler’s List né la poesia de La vita è bella, nè tantomeno i suoi protagonisti hanno lo sguardo languido e intenso di Liam Neeson o la struggente ironia di Roberto Benigni. Non ci sono bambini che indossano cappottini rossi ma solo bambini scarmigliati e sporchi, ci sono donne grasse con il capo coperto, uomini furiosi e aggressivi, ragazzi sporchi di terra con i vestiti sbrindellati, corpi paralizzati, ambulanze, polvere, armi, carri armati, fango, case sventrate, bulldozer, soldati. Eppure, come la lista di Schindler e come il film Oscar di Benigni, parla ugualmente di ingiustizia e violenza, solo lo fa senza edulcoranti: No other land sta ai grandi film sull’Olocausto come i biscotti del discount stanno ai biscotti del Mulino più famoso d’Italia. Brutto, un film brutto come un cazzotto nello stomaco, che come un cazzotto nello stomaco di toglie il fiato, guardarlo ti fa così schifo che non riesci neanche a piangere, ti asciuga gli occhi e la bocca.

E ti fa pensare. Però non ti fa stare bene, non è figlio di quel soft power che da 50 anni ci fa credere che anche se i tedeschi sono stati “banalmente malvagi” poi alla fine tutto è andato bene, non ti fa sentire assolto, non ti fa commuovere mentre pensi che “è tutto passato”, non c’è il lieto fine, non ci sono memoriali dove andare a lavarsi la coscienza per sentirsi meno in colpa di essere nati per caso nella parte fortunata del mondo, dell’etnia più privilegiata, nel continente più pacificamente bulimico.

Non ci sono acquasantiere dove bagnare le dita e segnarsi la fronte, non ci sono ceneri da cospargersi sul capo perché, mentre scrivo, il gabinetto di sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità il nuovo piano dell’esercito che prevede l’occupazione dell’intera Striscia di Gaza per un periodo di tempo non specificato e decine di migliaia di riservisti sono stati richiamati dall’esercito per espandere le operazioni militari. Mentre scrivo seduta tra i muri di casa mia, in una piccola città del Sud Italia, nella pace leggera di un pomeriggio trafitto dal garrito delle rondini e dalle picchiate dei grillai, l’ufficio stampa governativo di Gaza dichiara che più di 3500 bambini al di sotto dei 5 anni rischiano la morte imminente per fame e circa 70.000 sono ricoverati a causa di una grave malnutrizione. Tutto è come sullo schermo, tutto è peggio di quello che ho visto seduta comodamente in un cinema, i bambini muoiono di fame, i civili muoiono di sotto i droni, le case vengono sventrate, gli effetti personali si inzuppano di polvere, la dignità di un popolo è calpestata dagli anfibi dei soldati e dalle firme dei politici israeliani.

No other land è distribuito in Italia da Wanted Cinema, con il patrocinio di Amnesty International Italia e il sostegno di Medici Senza Frontiere.
Simona Irene Simone