
Non mi stancherò mai di dire che tutte le volte che vado a vedere uno spettacolo in carcere provo anch’io un momento di fugace libertà: è il momento in cui mi spoglio dei miei averi, chiavi, soldi, carte, agende, soprattutto smartphone, per presentarmi solo con il mio corpo e i miei pensieri a una tribuna che quella purezza momentanea la merita e la perscruta.
Ovviamente è una sensazione che è poco più di un vezzo, rispetto al dolore che percola dai muri e ci cammina a fianco, in un clima, quello attuale, che dietro l’”Ipertrofia penalistica” evocata dalla Cassazione circa il nuovo DL Sicurezza, nasconde un’aria irrespirabile, per le carceri sovraffollate in maniera sempre più insostenibile per chi è costretto ad abitarci e per chi ci deve lavorare. È molto difficile che a qualcuno piaccia davvero stare in carcere, quando accade è perché il resto del suo mondo fa ancora più schifo.
Nell’Istituto Penale per i Minorenni Fornelli, il laboratorio Sala Prove è attivo ininterrottamente dal 1997, e propone tutti gli anni testi che, pur riferendosi alla migliore tradizione drammaturgica, accarezzano l’ecosistema carcerario. Il laboratorio permanente affianca giovani attori esterni in formazione con detenuti ancora più giovani, un percorso che è molto più che un’attività, ma diventa una vera terapia, quasi esorcizzante. È il caso di “Traggiche Criature”, con la regia e drammaturgia di Lello Tedeschi. In scena, accanto ai detenuti attori del laboratorio, vi sono Orlando Fedele, Dominique Longo e Martina Regina.
Il titolo mi ha evocato subito le “Povere Creature!” di Lanthimos, solo che qui, invece di un cervello di neonato montato nel corpo di una donna, il Frankenstein si assembla tra i pezzi di varie tragedie.
Il canto delle murene della Donna di Porto Pim di Tabucchi ci impregna di una struggente e sensuale malinconia. L’Icaro di Wilde, interpretato da un giovane detenuto, ripropone all’infinito quel momento in cui è caduto, senza poter più rialzarsi, ma “la più grande tragedia di tutte è non provare mai la luce che brucia”, la frase centrale della pièce, sembra incollata addosso al giovane come le ali di Icaro alla sua schiena. Appare ineluttabile anche il destino tragico della povera Giulietta, morta per un paio di sfortunate e rapide circostanze dopo una mezza giornata di effusioni con Romeo, ma che rivela, prima di morire con grande enfasi, con chi avrebbe in realtà voluto effondersi. Infine, l’Amleto secondo Flaiano, preda eterna del fantasma del padre, ma anche sfottuto in continuazione dalla mistica scenica di Shakespeare.
Diverte la scenografia, a cura di Vittorio Palumbo, fatta di blocchi da comporre e ricomporre, dalla cripta di Verona, a una tribuna in tutto e per tutto simile alla nostra, fino a diventare un sepolcreto, una volta che la catarsi si è compiuta.
La catarsi, già, ma uscendo dalla Sala Prove, chi può dire di aver provato la vera catarsi? Un giovane attore che mima la propria liberazione, in attesa che sia vera? Noi, che a malincuore riprendiamo gli averi che ci rendono prigionieri del mondo?
Beatrice Zippo