
Anche quest’anno Francesco Minervini ed Onofrio Pagone sono tornati sul luogo del delitto per processare i protagonisti delle ultime ore di vita di Gesù Cristo; se l’anno scorso la scelta è caduta su Giuda, questa volta è toccato a Simon Pietro, l’apostolo più anziano di Gesù.
Tentato omicidio, resistenza a pubblico ufficiale e alto tradimento, i capi imputazione mossi dalla Pm, la magistrata Angela Tomasicchio, mentre all’avvocata Loredana Lorusso è toccato il ruolo della difesa e alla magistrata Alessandra Angiuli quello di Giudice. Il mio ruolo, come per tutto il pubblico assiepato nella Chiesa San Carlo Borromeo, nel quartiere Libertà di Bari, quello di giudice popolare.
Il dibattimento è entrato subito nel vivo, quando con rammarico la dottoressa Tomasicchio, contestando i primi due capi di imputazione in riferimento all’episodio del ferimento per mano di Pietro dello schiavo del Sommo Sacerdote nell’Orto del Getsemani, ha sottolineato come ancora una volta l’uomo si sia mostrato violento e istintivo e abbia risposto al mondo con aggressività, “sguainando la spada” per risolvere la questione con la forza.
L’ultimo reato riguarda, invece, il tradimento della Fides, la negazione della parola data a Gesù. E questi reati Pietro li avrebbe commessi tutti la stessa sera dell’arresto del Cristo. Proprio lui, il più vicino, il più fedele, colui al quale Gesù ha chiesto di fondare la sua Chiesa. Perché ha rinnegato di conoscerlo? Il processo e il dibattimento ci hanno aiutato a capire.
La vicenda dell’arresto di Gesù è stata ricostruita attraverso il contraddittorio che ha visto coinvolte tutte le parti: il fratello di Marco, la vittima; Andrea, il fratello dell’imputato; la portinaia, il pubblico ministero e l’avvocato difensore; tutti hanno restituito un pezzo di “verità “e con chiarezza è emersa la sincerità di Pietro e la sua profonda vicinanza al Maestro, ma la sincerità non è la fede.
Reo confesso, chiamato a testimoniare, anche Pietro ha parlato della sera dell’arresto di Gesù. Il pescatore di anime ha riferito di aver rinnegato il Nazareno per paura; certo, ha poi capito di aver sbagliato, ma quella sera la paura ha avuto il sopravvento. È stato profondamente sincero, ma era anche evidente, in quel momento, che la sua fede non era ancora salda.
Tutti tra i giurati ci siamo silenziosamente interrogati: Ma come? Lui, Simone, colui che ha ricevuto da Cristo il nome di “Pietro”, anche lui ha avuto paura? E poi, la paura può essere considerata una valida motivazione per giustificare un reato? Nel momento finale della sentenza, noi giurati popolari eravamo indecisi e combattuti dai nostri stessi dubbi.
Se è vero, come l’avvocata Lorusso ci ha aiutato a capire, che l’aggressione al giovane Marco e quella al pubblico ufficiale possono rientrare nella legittima difesa e perciò derubricati come reati, e se è vero anche che, a quel tempo, nessuno a Roma era obbligato ad autodenunciarsi, resta il dubbio, il ragionevole dubbio se accettare o meno come giustificazione la paura, quella paura confessata davanti a tutti e che ha portato Simon Pietro a rinnegare Gesù, suo Maestro.
Personalmente ho votato per l’innocenza di Pietro, perché, non sussistendo i reati, ho visto di fronte a me un Uomo. Certo di fronte all’investitura di Cristo nei confronti di questo pescatore, mi sarei aspettata il comportamento di un eroe coraggioso, forte, senza macchia e senza paura e, soprattutto, senza dubbi. Ma l’umana paura mostrata da Pietro, che ha testimoniato, attraverso tutta la sua vita, la fede in Gesù, ci ricorda che gli uomini sono fragili, che il nostro è un procedere incerto, fatto di errores, che la misericordia di Dio si manifesta in modo tanto più grande quanto più numerose sono le volte in cui lo ‘rinneghiamo’.
Il verdetto finale: assoluzione di Simon Pietro.
La sacra rappresentazione ha raccontato del dramma di Simon Pietro attraverso la chiarezza e l’estrema originalità del cammino giudiziario: l’accusa, i testimoni, la difesa, e infine la sentenza. Un gioco delle parti in cui ognuno ha indossato una veste e ha parlato da quella posizione, non per fingere ma per permettere di ricercare la verità, per scuotere le coscienze. Non è stato solo teatro, ma uno strumento per interrogarci attraverso la parola che si è fatta carne.
Ecco l’Uomo
Vicky Berardinetti