Con “Donne che non si arrendono”, la pièce con Stefania Benincaso, Lorenzo Flaherty e Furano Saxophone Quartet andata in scena al Teatro Piccinni, la Camerata Musicale Barese ha dato voce alle donne zittite da secoli

In concomitanza con la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la Camerata Musicale Barese, con la direzione artistica di Dino De Palma, ha presentato al Teatro Piccinni di Bari “Donne che non si arrendono“, evento teatrale e musicale contro ogni forma di abuso di genere.

Sulla scena sobria, un quartetto di musicisti d’eccezione (Furano Saxophone Quartet) e una coppia di attori si alternano nelle loro esibizioni. L’inframmezzo musicale fortemente trascinante, tra un racconto e l’altro su questo tema sociale tra i più scottanti, raggiunge gli animi dei presenti e consente di dar modo e tempo di riflettere, mentre sullo sfondo vengono video proiettate immagini evocative.  

Stefania Benincaso e Lorenzo Flaherty, con grande pathos, ma senza mai eccedere, sebbene il drammatico fil rouge dello spettacolo l’avrebbe consentito, nei diversi episodi proposti, sono un uomo e una donna a confronto. La scelta dei diversi frammenti di testo è opportunamente mirata a indurre il pubblico (molti studenti presenti) ad attraversare i vissuti dell’universo femminile per percepirne le emozioni e soprattutto comprendere la condizione della donna, che in ormai troppi casi è di assoluta disperazione.

Nella pièce un uomo si reca in un commissariato per esporre denuncia, ma viene abilmente manipolato e invitato a desistere da un’agente donna che lo induce a credere di essere egli stesso il colpevole per aver “provocato” il crimine. Questa inversione di ruoli, che consente all’uno di mettersi al posto dell’altro e quindi immedesimarsi, vuole principalmente manifestare che denunciare è fondamentale sia perché è un atto dovuto in quanto ogni violenza è un reato e sia perché protegge la vittima e impedisce al perpetratore di ripeterla. Nella maggior parte degli abusi ad opera di partner o familiari non c’è nessuna denuncia, molti subiscono comportamenti persecutori e violenza psicologica, poiché solo una minoranza lo considera un illecito, anche a causa di un retaggio culturale che fatica ad essere superato, che non riconoscere il sopruso e non distingue quello che non è normale.

In un’altra storia la Benincaso è puntuale nell’interpretazione della donna in carriera, che per realizzarsi ha dovuto rinunciare ai figli. Sposata con un collega, ne condivide vita e lavoro, ma la promozione è un traguardo che non avrebbe dovuto raggiungere e che sarà la causa del suo tragico destino, perché ad una moglie non viene permesso di guadagnare più del marito né tantomeno superarlo di grado: il suo sangue sarà l’unico modo che quel pover’uomo avrà per placare l’umiliazione patita. Le donne per secoli sono state relegate alla cura della famiglia, mogli e madri vittime del patriarcato e di relazioni squilibrate, sono state zittite impedendo loro di avere un ruolo diverso nella Storia.

Spostato lo scenario nell’aula di un tribunale, una donna depone davanti al giudice e ricorda la violenza subita che le ha stravolto la vita e l’ha privata della sua dignità, mentre l’avvocato difensore del suo stupratore la schernisce pubblicamente. Strepitosa la Benincaso nel dar voce alle vittime, comprese quelle che non possono essere più ascoltate come Meena Keshwar Kamal, fondatrice del movimento femminista RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan). In un Paese che non riconosceva i diritti fondamentali all’istruzione, alle cure mediche e alla difesa legale delle donne, Meena formò piccoli gruppi clandestini di donne, per combattere e sopravvivere al regime repressivo. Consapevole che la sua vita era in pericolo, affidò i suoi tre figli ad amiche fidate e il cui destino non è oggi noto. Fu rapita, torturata e uccisa da un gruppo criminale assoldato dai servizi segreti afgani.

Le cose sono cambiate con la lentezza di un contagocce. Riuscire ad uscire da un destino culturale che è antico come il mondo è arduo, perché difficile è mettere in discussione pregiudizi e comportamenti consolidati. Vige un analfabetismo sentimentale che non riesce a tracciare il confine tra ciò che è amore e ciò che non lo è. Necessario è insegnare ai giovani (adulti del domani) cosa è violenza e come evitare le relazioni disfunzionali, ma anche rivolgendosi agli adulti, spiegando come affrontare queste situazioni attraverso una cultura del rispetto.

Doveroso insomma è un cambiamento per andare verso una evoluzione sociale. Lo ripeteva già Benedetto Croce un secolo fa: “La violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla“.

Cecilia Ranieri
Foto di Clarissa Lapolla photography
per gentile concessione della Camerata

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