“Vorrei chiederti di quel giorno”: la storia di un giovane degli anni ’70 tra passione, impegno politico e salute mentale nel nuovo libro di Lorenzo Tosa

Prosegue in tutta Italia il tour di presentazione di “Vorrei chiederti di quel giorno”, il secondo libro di Lorenzo Tosa, giornalista che ha ottenuto un grande successo soprattutto attraverso i social Facebook ed Instagram grazie al costante impegno sui temi dei diritti civili, dell’Europa, dell’accoglienza, del rispetto nei confronti di tutte le minoranze, temi alla base del precedente “Un passo dopo l’altro – viaggio attraverso l’Italia che resiste” del 2020.

Questa nuova opera affronta un tema che lo tocca da vicino, il tema della malattia mentale. Lorenzo, infatti, come rese noto al suo pubblico con un post del 2 aprile 2022, a soli due anni e mezzo perse il padre.

Come? Cosa accadde a Bruno Tosa? Per anni Lorenzo si è accontentato di vaghe mezze risposte secondo cui suo padre, “era malato” e “si è lasciato andare”. Si è accontento di questo oblio imposto, non ha approfondito. Credeva di non avere il diritto di squarciare il velo dell’omertà che era stato steso su quegli eventi. Nonostante la sua formazione saldamente laica, estranea al senso di colpa era proprio questo ciò che provava nel volerne parlare, viveva questa esigenza come una sorta di peccato, una mancanza di rispetto nei confronti di chi restando aveva scelto la strada del silenzio.

Articolo 1. La famiglia Tosa è una famiglia fondata sul silenzio”, scrive al riguardo.

Perché, come emerge durante le discussioni che accompagnano ogni evento, esistono due vie di salvezza in un caso del genere: l’ignoranza e la conoscenza. Per 38 anni Lorenzo ha accettato, sotto la spinta della famiglia, che cercava forse di raccogliere l’esortazione del maresciallo dei carabinieri che aveva portato la tragica notizia a “mettere in salvo” i bambini, di rifugiarsi nella prima via, quella dell’ignoranza. Non sapeva nulla di quell’uomo, di ciò che gli era accaduto, addirittura fino alla decisione presa pochi anni fa di approfondire e ricostruire gli eventi non aveva idea neppure di quando si fossero verificati, men che meno del come e del perché.

E poi c’era quell’uomo che aveva gli anni di Cristo e la barba lunga quando se n’era andato, l’unico che non ho mai conosciuto, di cui non conservavo alcun ricordo non mediato da una Polaroid, e che, per qualche strana ragione ho imparato ad evocare con un unico nome quasi onomatopeico: Papabruno”, scrive.

Lorenzo non rinnega quei primi 38 anni di silenzio in cui in primis la sua famiglia e di conseguenza lui stesso hanno scelto la via di salvezza dell’ignoranza perché gli hanno permesso di affrontare la conoscenza da persona ormai matura e risolta, senza più rabbia né risentimento, a testa alta e senza la necessità di regolare conti con nessuno.

Ma ora è padre a sua volta, ed un giorno il suo bambino, allora di soli 4 anni, imbattutosi in alcune foto del nonno che ciclicamente riemergevano nonostante siano state spesso tenute il più lontano possibile, inizia a tempestarlo di domande come solo i bambini piccoli sanno fare, e così demolisce quella comoda barriera del silenzio facendogli comprendere che era giunta l’ora di percorrere la seconda e più difficile via, quella della conoscenza. Perché sotto i colpi delle domande di Ludovico Lorenzo, così ci racconta, va nel panico rendendosi conto di non avere risposte da dare non solo a suo figlio ma prima ancora a sé stesso. Ma stavolta la domanda forte ed urgente arriva da quel figlio che un giorno avrà il diritto di sapere.

È stato tutt’altro che immediato, c’è voluto il suo tempo. Giorni, credo, forse settimane, non ricordo. So che a un certo punto, a una distanza relativamente comoda da quell’interrogatorio serrato ho realizzato che le storie, anche quelle più intime e dolorose, non ci appartengono. Non siamo che i depositari di un’eredità che qualcuno ha raccolto e conservato per noi, che a nostra volta abbiamo il compito di tramandare a chi viene dopo. Non importava se avrei trovato le parole giuste (come se esistessero parole giuste), meritava di ricevere una risposta, la più onesta, la più dignitosa possibile, la più simile per approssimazione a quell’utopia che chiamiamo verità.”

Stavano giocando, costruendo un puzzle quando il piccolo Ludovico si è imbattuto in quelle foto del nonno. E anche Lorenzo inizia quindi ad identificare e piano piano a rimettere insieme le tessere del puzzle della vita di Papabruno, a ricostruirne la storia e la complessa e sfaccettata personalità, i rapporti con i membri della sua famiglia e con gli amici, i rapporti con la Storia attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto ed amato. E il libro segue la ricerca e la scoperta di queste tessere: ogni testimonianza che ascolta, ogni scoperta che fa attraverso questi incontri e queste testimonianze la fa insieme ai lettori che quindi possono partecipare insieme all’autore alla ricostruzione del puzzle.

Proprio una delle prime testimonianze riportate, quella di Lucia, compagna di lotta politica del padre, squarcia per la prima volta il velo dell’omertà. Suo padre si era lasciato andare, sì… nel vuoto, dal ponte di Carignano. “Il ponte. È come se ascoltassi quella parola per la prima volta in vita mia. In questo momento sono un bambino, ho due anni e mezzo e sto imparando un termine che fino a cinque secondi fa non esisteva nel mio vocabolario”.

Perché da quel momento in poi la parola “ponte”, quello stesso ponte fisico, attraversato innumerevoli volte nella totale inconsapevolezza per anni, assumono un significato completamente nuovo. Nessuno aveva mai pronunciato la parola suicidio.

Scrive spesso Lorenzo nei suoi post sull’argomento di come il tema della salute mentale in generale e del suicidio in particolare siano ammantati da un clima di silenzio, omertà, stigma, di come la parola suicidio sia “una sorta di tabù che la nostra società ha bandito, ostracizzato, rifiutato”. E proprio per la delicatezza dell’argomento e del vissuto che lo circonda per chi resta ha scelto di essere accompagnato negli eventi di presentazione dai volontari del Progetto Itaca, che si sono sottoposti a corsi di formazione tenuti da professionisti medici e paramedici con la missione di sensibilizzare la comunità per superare stigma e pregiudizio, informare le persone per prevenire le malattie e per orientare alla diagnosi e alla cura, ad esempio attraverso progetti nelle scuole, sostenere i malati e le loro famiglie nel percorso di recupero del benessere e della pienezza di vita. È infatti questo uno dei grandi limiti applicativi della Legge Basaglia, una legge rivoluzionaria, visionaria, che voleva restituire ai pazienti diritti e dignità di persone ma che, tradita nei fatti nella seconda parte che prevedeva la presa in carico della salute mentale della Sanità Pubblica, rimasta purtroppo incompiuta per ammissione anche di chi a questo tentativo di rivoluzione aveva partecipato con il massimo entusiasmo.

E già in questa prima come in tante delle successive tessere del puzzle messe insieme con lo strumento dell’inchiesta giornalistica la storia personale di Bruno Tosa si fonde con la Storia Nazionale, attraverso le testimonianze fornite dai compagni di lotta sulla sua militanza politica che ne ricostruiscono la partecipazione agli eventi che hanno caratterizzato gli anni ’70 ed il ruolo svolto nel corso delle lotte di studenti ed operai per la conquista dei diritti dei lavoratori, la sua distanza dalle frange di sinistra extraparlamentare che avevano scelto la lotta armata, le sue reazioni agli eventi più discussi di quell’epoca, culminati nel sequestro ed omicidio Moro. Attraverso la vita di suo padre e le testimonianze dei suoi compagni quindi Lorenzo pur non volendo scrivere un saggio politico sul tema fornisce un prezioso quadro di un periodo troppo vicino per essere discusso sui banchi di scuola e riguardo al quale la conoscenza di molti di noi è legata alla documentazione attraverso ricerca autonoma delle fonti per scelta personale.

Emerge dalle testimonianze raccolte il quadro di un ragazzo generoso al punto di lavorare gratis per i bisognosi (“Se qualcuno non mi può pagare io non lo faccio pagare. E questo è tutto” rispondeva alla moglie che gli faceva presente che sebbene la sua generosità gli facesse onore doveva tener conto anche della necessità di provvedere alla famiglia), con una passione politica talmente forte da permeare ogni aspetto della sua vita. “Hanno provato a dire che è stata la politica ad ammazzare Bruno … ma la verità è che quando faceva quelle cose, quando faceva i ciclostili, quando faceva servizio d’ordine alle manifestazioni, quando passava le notti in macchina per essere pronto all’alba a ritirare i giornali tuo padre era felice. Felice. Forse non era mai stato tanto felice come in quel periodo, e dopo non lo sarebbe stato più come allora” dirà il suo compagno Bruno Piotti.

E infatti nel momento della fine di quei movimenti che ha rappresentato per i ragazzi degli anni ’70 la fine dei loro sogni e il crollo dei loro ideali Bruno non riesce a reinventarsi come altri dei suoi compagni attraverso la professione o un diverso impegno politico ma finisce per perdersi.

Un’unica parte del libro è parzialmente romanzata, quella dedicata alla ricostruzione del 2 aprile 1986, l’ultima giornata di vita di Papabruno, che lega frammenti di testimonianze fornite dai familiari sopravvissuti, da persone che hanno dichiarato di averlo incontrato in vari momenti della giornata al tentativo di ricostruzione in forma letteraria delle emozioni dei membri della famiglia Tosa che hanno vissuto quella giornata, lo stesso Lorenzo incluso. Una ricostruzione piena di punti interrogativi, tra questi quello sulla scelta del ponte, dal quale per coincidenza o forse no Bruno negli ultimi momenti di vita avrebbe potuto vedere l’ufficio del padre Teresio, conservatore, ex carabiniere e capo delle guardie dell’Ansaldo, di fatto il suo opposto, cui era legato da un amore-odio reciproco tipico del classico scontro generazionale tra padri e figli, nel loro caso ancora più forte.

Manuela Colafigli

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