“Chi non fa atti politici con la propria arte, non dovrebbe fare arte!”: l’intervista a Caterina Filograno, autrice, regista e interprete della pièce “L’ultimo animale” in scena al Teatro Kismet di Bari

Relazioni umane e animali, due mondi – ognuno con le sue paure, speranze, istinti e desideri – che si incontrano e scontrano: debutta questa sera, 23 marzo alle ore 21, nell’ambito della Stagione ‘Bagliori’ del Teatro Kismet di Bari, L’ultimo animale. Il Cirano Post ha intervistato Caterina Filograno, regista e attrice barese che ha curato anche la drammaturgia della pièce.

Dopo aver calcato alcuni dei palcoscenici più prestigiosi per quel che riguarda la sperimentazione teatrale, dal Teatro Fontana
di Milano al Teatro Cantiere Florida di Firenze, stai per debuttare al Teatro Kismet di Bari con “L’ultimo animale”. In che fase della tua ricerca artistica si colloca questo ritorno nella terra d’origine?

È un momento importante per me perché l’ultima volta che son stata a Bari l’ho fatto come attrice nel Gabbiano di Licia Lanera, mia carissima amica, dove interpretavo Nina. Oggi torno con un progetto tutto mio: L’ultimo animale è scritto, diretto e interpretato da me assieme a quattro stupende colleghe. Sto cercando la mia voce nel mondo del teatro e ho capito che voglio trovarla anche attraverso le mie creazioni. Portare sui palchi italiani, e spero presto esteri, i miei spettacoli è qualcosa che dà senso alla mia esistenza, io credo di avere qualcosa da dire. E spero potere ottenere budget sempre più alti per comunicare quello che ho dentro nel modo che merito.

Tutto sembra andare bene: Cristi vive in affitto dalla sua migliore amica Giudi, in un buco nella parete si nascondono due
procioni e un bruco a cui Cristi bada, all’insaputa dell’altra. Qual è il casus belli che mette in moto l’azione?

Il mio è un testo sul potere, sulle gerarchie e sulla lotta di classe. Le protagoniste sono due borghesi viziate che non hanno nulla a cui pensare se non vivere nell’apparenza più assoluta. E spesso io mi sento così. Dunque Cristi è il mio alert ego. Tutto qui ruota intorno al cibo che è ciò che muove i personaggi all’azione. Chi lo ha lo butta, chi non lo ha lo agogna. Il casus belli è proprio in questa dinamica: un giorno Cristi si dimentica di nutrire i suoi animali e loro si ribellano, dando vita a un vero e proprio Golpe che avrà conseguenze anche in chi quei procioni neanche sa che esistono e cioè Giudi. È la storia della nostra esistenza. A un certo punto gli oppressi uccidono gli oppressori.

“L’ultimo animale” nasce da una riflessione sul bacio di Giuda, tematica proposta dal concorso di drammaturgia diretto da Antonio Latella per La Biennale College 2018. In questi anni il lavoro ha preso vita propria ma il tradimento resta un elemento
portante. Chi delle due protagoniste tradisce per prima?

La storia di Cristi e Giudi è fatta di continui micro tradimenti dal sapore adolescenziale. Cristi dà all’amica i consigli sbagliati relativamente a un uomo che sta frequentando in modo che i due si lascino. È invidiosa del fatto che Giudi si sta fidanzando mentre lei è single. A sua volta Giudi, che nonostante i tranelli si riesce a fidanzare, le comunica che deve andarsene di casa perché lei vuole convivere col nuovo partner proprio lì. Quel secondo tradimento porterà a conseguenze irrieversibili. Mi ha divertito dare i ruoli di Cristi e Giudi a donne , io ho 33 anni e la Porrini 43. Questo cortocircuito tra quello che diciamo (che sembra detto da due 17enni) e ciò che siamo penso salti agli occhi e ci faccia fare delle domande anche rispetto alla maturità emotiva che c’è oggi nei rapporti interpersonali.

Nel microcosmo a cui dai vita con lo spettacolo, sembra che tutti i personaggi siano legati da un meccanismo di dipendenza che li vincola a quello che qualcun altro fa (o non fa). E poi c’è il cibo che fa da fil rouge per l’azione. Perché questa scelta?

Perché tutti i rapporti umani sfociano inevitabilmente in relazioni di potere, in chi lo ha e in chi lo vorrebbe. Perché il capitalismo è ovunque e permea le nostre anime e i nostri corpi fino al midollo. Se noi siamo governati dal Dio denaro nell’ultimo animale il discorso è identico ma traslato sul cibo. Perché il cibo ê ancora più primario e credo faccia saltare agli occhi ancor di più la violenza dei meccanismi di sopraffazione e sopravvivenza tra esseri viventi.

Alcuni dei personaggi che crei, penso ai procioni e al bruco, non hanno una connotazione di genere prestabilita. Dunque,
potrebbero essere interpretati da uomini o da donne. Con te sul palco ci sono quattro attrici: è una scelta esclusivamente artistica o una dichiarazione politica che guarda a un sistema teatrale in cui persiste un forte disequilibrio?

Il teatro italiano è indietro. Siamo ad almeno 15 anni di distanza rispetto al nord Europa, se non di più. Non so cosa ci è successo nell’ultimo decennio ma la situazione rasenta oggi l’imbarazzante anche su grandi palchi italiani. Non si finanziano progetti audaci, pur essendoci talenti che avrebbero qualcosa da dire perché imperversano sui palchi spettacoli di registi (uomini soprattutto ovviamente) che reinterpretano classici in una maniera che nella maggior parte dei casi odora di naftalina. E in questi classici è ovvio che i ruoli sono soprattutto maschili perché così son stati scritti in quei momenti storici. Ma il problema è anche più grande. La donna è fatta per servire, se è attrice che obbedisce al regista ok perfetto. Se inizia a scrivere a dirigere e quindi a pensare e a comandare eh no…too much. In Italia come registe siamo il 17 per cento del totale. Come autrici poco di più. Le percentuali son basse anche perché noi stesse non ci autorizziamo a puntare a ruoli potenti. In Germania da legge dello stato le donne devono essere il 50 per cento in ogni ambito della produzione teatrale. Oggi poi c’è bisogno di investire nella drammaturgia contemporanea e in nuove storie. Io scrivo soprattutto per donne (ma non solo) perché le trovo spesso più interessanti con le loro complessità. Dunque la mia è una dichiarazione politica certamente. E chi non fa atti politici con la propria arte non dovrebbe fare arte… e mi piacerebbe risuonasse ancora più forte questa dichiarazione in una città come Bari, dalla quale sono scappata perché la ritengo una città profondamente maschilista. Con una radicata cultura patriarcale che, da quando me ne sono andata 13 anni fa, vedo ancora completamente immutata.

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