Nelle corde del Jerusalem Quartet, esibitosi per il cartellone della Fondazione del Teatro Petruzzelli di Bari, risuonano più le note di Smetana e Šostakóvič che quelle di Beethoven

Sul palco del Teatro Petruzzelli, nell’ambito della Stagione concertistica 2024 della Fondazione, è giunto il Jerusalem Quartet, composto da Alexander Pavlosvky (violino) Sergei Bresler (violino), Ori Kam (viola) Kyril Zlotnikov (voloncello), preceduto da una fama che ha stuzzicato sicuramente la curiosità di molti presenti in sala e che, come il pifferaio magico, li ha condotti nel medesimo luogo al loro cospetto.

Il quartetto è declinato al maschile, interamente, e ha origini israeliane e formazione che risale al 1993, sebbene il debutto ufficiale sia avvenuto qualche anno più tardi nel 1999. La cifra stilistica che lo caratterizza e che funge da catalizzatore è sicuramente un suono caldo, morbido, equilibrato, insieme al variegato repertorio in loro possesso, di cui hanno dato piena prova anche nel concerto barese, soprattutto nella prima parte.

Di Bedřich Smetana (1824-1884) è il primo quartetto per archi n. 1, in mi minore, “Z mého života” (Dalla mia vita) sviluppato in quattro movimenti che riflettono i differenti stati d’animo e vissuti dal compositore che ci fanno passare dall’allegria rievocativa del periodo giovanile con il primo movimento “Allegro vivo e appassionato”, alla piacevolezza della polka (tipica danza legata alla sua terra ceca), per giungere con una lunga parentesi nel  movimento più evocativo e di struggente bellezza (Largo sostenuto) nel quale il quartetto ha l’abilità di sottolineare l’espressività emotiva legata al suo primo amore. Lo struggimento e la commozione vengono resi alla perfezione, il dialogo musicale vien fuori con una tenerezza acuta tale che sembra essere librato da corde vocali piuttosto che da quelle dei due violini, della viola e del violoncello, tanto che il quarto movimento “Vivace”, intervenendo vigorosamente, irrompe l’atmosfera che ci lascia già orfani di bellezza pura.

Con il russo Dmítrij Dmítrievič Šostakóvič (1906 – 1975) l’impatto “acustico” è differente, è quasi assordante. All’apparenza ogni strumento, nella “Ouverture”, sembra suonare un proprio spartito, ma naturalmente così non è. Qui il pentagramma diventa particolare, complicato poichè suscita quasi fastidio che però termina con l’inizio del secondo movimento “Recitativo e romanza” che il primo violino apre segnando passi che sanno di dolore e strazio, all’indomani della scoperta dei campi nazisti a pochi chilometri dalla sua terra natale. La chiusura affidata al “Tema con variazioni: Adagio” è talmente intensa che diventa inverosimilmente rarefatta tanto da raggiungere impercettibilmente il nostro udito, al pari del silenzio che avvolse il compositore a seguito della privazione del senso più importante per un musicista.

La seconda parte del concerto, interamente dedicata al “Quartetto per archi n.8, in mi minore, op.59 n. 2 Razumowsky” a firma di Ludvig van Beethoven, anch’esso suddiviso in quattro movimenti , a dirla tutta, non è arrivato con lo stesso pathos emotivo, né in fase ascendente né in fase discendente.

E’ indubbia la bellezza della partitura e la capacità tecnica ed espressiva degli artisti (anzi quest’ultima sgombra il campo da rivali) ospiti ricorrenti nei più grandi palcoscenici del mondo e che continueranno il loro tour in Svezia, Germania, Gran Bretagna e Svizzera;  probabilmente è questo l’aspetto che ci deve fornire la chiave di lettura di quest’ultima impressione. I temi che hanno ispirato e prodotto gli struggenti spartiti musicali, di Smetana prima e Šostakóvič dopo, a dispetto di quelli di Beethoven (nessuno se ne abbia a male) avranno toccato corde molto più sensibili ed intime negli esecutori facendole vibrare con il solo richiamo alle terre di appartenenza del quartetto e comuni ai due compositori (in riferimento all’essere ormai continue scene di guerra).

Non a caso il quartetto Jerusalem, evidentemente mosso dal comune sentire di rinnovare la memoria di giorni lontani (e assolutamente attuali) non trascura l’esplorazione della musica yiddish – tanto da pubblicarne un album nel 2019 – dove per tale si intende quella  musica che traeva spunto dalle storie che narravano la vita errante dell’ebreo che patria non aveva, in una lingua – la yiddish appunto – frutto della commistione di più idiomi (ebraico, russo, ucraino, polacco, rumeno e tedesco) che animava i cabaret parigini nel dopoguerra ove si cercava di far riaffiorare una cultura che conferisse agli erranti identità personale e collettiva. A questo punto, in effetti, non sono certa che la musica yiddish appartenga proprio al passato.

Gemma Viti

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