Nella Stagione concertistica 2023 della Fondazione Petruzzelli brilla l’arte pianistica del Maestro Alexander Lonquich

La Stagione concertistica 2023 della Fondazione Teatro Petruzzelli, dopo la pausa estiva, ha riaperto i battenti del suo prezioso ed accogliente Politeama con un concerto che ha visto esibirsi il tedesco Alexander Lonquich, che nell’occasione ha indossato le vesti di pianista, accompagnato dall’Orchestra del Teatro Petruzzelli diretta da Giacomo Sagripanti.

L’eclettico Lonquich non è “solo” un apprezzabilissimo concertista, impegnato con direttori del calibro di Abbado e Koopman (per citarne qualcuno), ma è anch’esso stimatissimo direttore d’orchestra che collabora stabilmente con numerose orchestre in tutto il mondo.

La composizione che scivola tra le sue mani è il “Concerto n. 1, in re minore, per pianoforte e orchestra” di Johannes Brahms, sviluppato in tre tempi. Il primo, il “Maestoso”, si apre presentando un tema di una potenza tale da sembrare un fulmine che si staglia in un cielo terso fino a pochi secondi prima, una pagina che richiede un dialogo incessante tra orchestra e pianoforte che non ammette distrazioni di alcun genere, per via dell’articolazione musicale senza fiato affidata alla voce del piano.

Nonostante l’evidente bravura e gli sforzi messi in atto dal magistrale Lonquich, la narrazione a tratti risultava “scollata”, l’accompagnamento dell’Orchestra insegue e non interagisce all’unisono, malgrado ciascun orchestrale faccia il suo con la richiesta diligenza. Il viaggio emotivo che il Primo Movimento conduce, come da partitura, tra fraseggi che, come un’onda, ci portano prima su per poi sfumare verso il basso, ci coinvolgono parzialmente solo quando emergono i virtuosismi del pianista che, finalmente, riscaldano così un’atmosfera che avremmo preferito essere uniformemente un po’ più coinvolgente, non foss’altro perché il fine di Brahms era di esprimere, in questa partitura, l’inevitabile turbamento ed angoscia provati per il tentato suicidio dell’amico Schumann. Nel secondo movimento, “Adagio”, probabilmente perché subentra una tema più riflessivo e sereno, la resa è complessivamente migliore, per poi giungere al terzo ed ultimo movimento, il festoso “Rondò, allegro ma non troppo”. Il tema più rigoroso, legato alla danza popolare che tanto affascinava il compositore tedesco, risulta molto melodico ed al contempo molto dinamico in cui, ancora una volta, veniamo investiti dall’esaltazione ritmica perfettamente incarnata dalla maestria del Maestro Lonquich. Il possente finale lancia il pubblico in un applauso che induce il solista ad un doppio bis con il quale ci delizia, in compagnia del solo strumento, con un intermezzo di sapore malinconico di Brahms ed un preludio di Chopin con i quali si congeda dagli astanti molto più appagati e che non mancano di far sentir il loro fragoroso apprezzamento.

Con la seconda parte del concerto, il direttore Sagripanti, sotto lo sguardo dello stesso Lonquich che ha preso posto al centro della platea divenendo un attento e speciale spettatore, fa eseguire all’Orchestra del Petruzzelli la “Sinfonia n.7 in re minore op 70” di Antonín Dvořák, composta da quattro movimenti: “Allegro maestoso”, “Poco adagio”, “Scherzo vivace-poco meno mosso” e “Finale:Allegro”.

Della sinfonia ispirata all’illustre modello Brahmsiano, rinveniamo una parabola emotiva che risente, come nel terzo movimento, del culto che il compositore boero dell’ottocento aveva per la musica popolare, non necessariamente legata alla sua terra, che inventava anch’egli grazie all’infanzia vissuta in povertà in un piccolo villaggio ed alla casa di campagna dove, da adulto, si rifugiava spesso, e che personalizzava attraverso la musica europea nella quale era pienamente inserito. Il “furiant” è eseguito con perfetta vivacità; l’energia profusa dei violini ci rinvigorisce e ci trascina nella danza slava con ritmo sostenuto per poi riconsegnarci ad un finale di tutt’altro sentire, in cui le emozioni sono più cariche di pathos, che ci restituisce dapprima una breve traccia melodica che infonde serenità ed ottimismo cui segue una marcia trionfale che chiude il concerto, nella sua antitesi, in un clima un po’ tiepido, in cui le porte del teatro si chiudono dietro un pubblico che si allontana senza troppi indugi. Non è improbabile – e questo dispiacerebbe non poco se trovasse conferma – che l’orchestra tutta ed il suo direttore abbiano involontariamente sofferto l’inevitabile giudizio, rimasto naturalmente inespresso, che si è levato dalla poltroncina rossa preziosamente occupata.

Gemma Viti

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