Un fardello di amore e pena per una terra ostile, inerme e indifesa: “Mal di Libia”, il racconto, lontano dalle notizie mainstream, della giornalista Nancy Porsia sulla Libia, i libici e l’Europa

Mal di Libia non è solo un libro sulla condizione politica, economica e sociale della Libia contemporanea, è un libro sul giornalismo e sulle giornaliste, è un libro sulle donne ed è soprattutto un libro sulla necessità di emancipazione nella vita di tutte le donne e gli uomini. Ma è anche un libro avvincente come un romanzo, è uno di quei libri che, quando ti accorgi che sta per finire, centellini le pagine per non terminarlo troppo presto.

La prima volta che ho incrociato Nancy Porsia è stato a Matera, nei mesi del Covid quando il lockdown cedeva il passo ad una leggera tolleranza sulle uscite di casa dei cittadini, io non sapevo chi fosse quella donna che si era fermata a parlare con il mio compagno ma i suoi occhi, così pungenti e vivi e vispi, mi hanno attirata verso le sue parole. Non capivo cosa significassero tutte quelle domande sul suo ritorno o sul fatto che per ora sarebbe stata a Matera per un po’, per me quella donna faceva parte del paesaggio materano come se fosse stata lì da sempre anche se nella sua voce c’era qualcosa che la portava altrove.

La coscienza militante di Nancy Porsia inizia a formarsi con i racconti della nonna sul nazifascismo e la fame a Matera, quello è il primo passo verso una visione del mondo in cui non dovrebbero esistere oppressi e oppressori, il carattere di un’attivista che in una piccola città di provincia si ribella ad una visione patriarcale dei rapporti prende forma nella ribellione ai “no” detti senza i “perché”. Durante la presentazione del libro a Matera Nancy Porsia racconta che proprio Matera, la sua città di nascita, la città in cui è cresciuta sentendosi lontana dal mondo, in un ambiente culturale quasi pari a zero, proprio Matera e il suo nulla le hanno dato la possibilità di costruire qualcosa, di formare cioè uno sguardo inedito sulle cose, proprio perché di cose da fare e di pensieri da ascoltare ce n’erano pochi. Nancy Porsia lascerà Matera per andare dove si faceva la storia “La guerra, anche se si combatteva in un altro paese, era per me una presenza costante, un treno che correva parallelo alla mia vita e che rendeva la staticità delle giornate di provincia insopportabile”.

Militante da sempre, scrive: “La dignità della persona è sempre stata il valore fondante della mia identità e del mio stare al mondo. Una lotta che con gli anni, l’esperienza e la consapevolezza è diventata una lotta comunitaria e sociale” ed è proprio questa lotta che la porta in Libia pochi giorni dopo la morte di Muʿammar Gheddafi e qui, come giornalista indipendente, inizia a chiedere, conoscere, prova a capire e a tessere un filo tra gli avvenimenti da raccontare a noi che stiamo dall’altra parte del Mediterraneo davanti ad uno schermo retroilluminato. Nancy Porsia ci racconta quali sono le regole non scritte del giornalismo, cosa chiedono le redazioni ai loro inviati e quali strade devono battere i giornalisti indipendenti, quanto sono importanti le relazioni sul territorio e quanto può essere difficile scrivere di guerra e di rivoluzione mantenendo la giusta distanza. E ci racconta anche di una condizione femminile ancora fortemente svantaggiata perché, se per i trafficanti le donne sono semplicemente corpi da violentare per affermare ancora il proprio potere, per gli uomini di potere che rilasciano interviste rispondere ad una donna è quasi sempre un affare che rasenta l’assurdo.

Tripoli diventa la base di Nancy Porsia la cui intelligenza e sete di comprensione delle cose porta dal racconto della guerra civile fino alle trame – strettissime – del traffico di esseri umani e delle ragioni di una Europa che scende a patti con le milizie pur di raggiungere la stabilità: “La democrazia ha bisogno di un padrone per essere imposta. Forse il mondo occidentale è alla ricerca del padrone che porti in Libia la democrazia. Non la democrazia del governo del popolo, ma quella della stabilità, degli affari, degli interessi. Una democrazia che chiuda quel corridoio di clandestini in cui si è trasformata la Libia”.

Scrive un’inchiesta sulla collusione tra la guardia costiere libica e i trafficanti di esseri umani, cerca di far sentire la sua voce tra le mille voci delle breaking news e viene intercettata e seguita telematicamente per mesi, senza essere mai formalmente indagata ma le sue telefonate, i suoi messaggi, vengono acquisiti dalla procura di Trapani nell’inchiesta sulla posizione delle ONG nel traffico di esseri umani. “Più conquisti pezzi di verità, più ti rendi conto di quanto sei inutile”. Le circostanze sempre più pericolose per la sua incolumità la portano a lasciare Tripoli e dopo un periodo di “esilio” in Tunisia, Nancy Porsia torna a Matera ma continua a scrivere. E scriverà anche questo bellissimo libro dedicato a tutte le persone che si nascondono dietro le cifre, dedicato a tutte le vite che nella logica delle guerre perdono valore e diventano solo numeri.

Ad oggi, diciannove settembre duemila ventitré, sono 130.620 i migranti arrivati in Italia dal primo gennaio secondo il cruscotto statistico giornaliero del Ministero dell’Interno, numeri che nascondono le facce di chi arriva, i nostri cervelli faticano a immaginare 130.620 facce e storie. Ecco, i libri come quello scritto da Nancy Porsia servono a questo, a farci immaginare, a farci fermare, servono a riflettere, a provare a capire cosa significa mettersi in viaggio verso l’Europa dall’Africa Subsahariana. Servono a ricordarci che quelli che la politica chiama “clandestini” o “irregolari” sono persone che subiscono violenze e soprusi, sono donne, uomini e bambini che non hanno alcuna colpa (se mai la violenza fosse giustificata da una colpa), sono persone che provano a vivere, che provano a fuggire, che provano a cambiare vita e di conseguenza, provano a cambiare il mondo.

“Prima di imbarcarsi per due settimane, seicento persone, tra cui un gran numero di donne e bambini, erano state ammassate e picchiate quotidianamente, tenute senza acqua né cibo, dentro i casolari alle spalle delle palazzine verde chiaro di Abu Kammash, villaggio portuale a ovest di Zwara. «I libici dicevano che avremmo dovuto perdere peso per imbarcarci», mi ha raccontato Ali quando ci siamo conosciuti in Italia, occhi da sognatore e sguardo confuso di chi è rimasto solo al mondo. «Entravano nello stanzone, si guardavano intorno, sceglievano alcune donne e se le portavano via. Quando le donne tornavano dopo qualche ora restavano in silenzio e piangevano». Ali racconta con lo sguardo di chi è gravato dal senso di colpa per aver assistito a tanta violenza senza reagire. Ma ha diciassette anni e non poteva opporsi agli uomini armati che prendevano le donne per violentarle”.

Simona Irene Simone

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