Perchè Sanremo è Sanremo? Il successo del 73° Festival della canzone italiana come metafora di un intero popolo, con i suoi pregi, difetti, mania di protagonismo e sterminata voglia di critica voyeuristica

Bastaaaa!!! Ancora con ‘sto Sanremo?
Ebbene sì.
A distanza di qualche giorno dal termine dell’appuntamento televisivo più atteso dell’anno sono qui a deliziarvi con le mie riflessioni, sperando che siano un po’ differenti da quelle già sentite.

Se c’è qualcosa che mi manda letteralmente in bestia sono tutti quelli che “O mammaaa, ma come si fa a vedere Sanremooooo!!!” che è un po’ come far finta di non sapere chi sia Rocco Siffredi; intanto lo share che va al 62% al 66% me lo devono spiegare e in modo chiaro e comprensibile, o forse è meglio prova a ragionarci e a fornirsela da soli una spiegazione.
Siamo nell’epoca del digitale e di una offerta mediatica praticamente infinita, potrei pensare che il tam tam attorno all’evento “Festival” funzioni un po’ come i trend topic di Twitter: il ‘medioman’ di turno vede un hashtag e sente l’impulso di utilizzarlo per commentare la qualunque, i famosi “virologi”, “allenatori”, “avvocati” della porta accanto che ci deliziano da anni con i loro sproloqui; quindi, se tutti guardano Sanremo, anche io lo guardo ma, in questo caso, la forza dell’hashtag che generalmente si esaurisce nel giro di 24/48 ore, è invece cresciuto con il passare dei giorni.
Mistero della fede? Naaa… anche se il nome Sanremo, che si scrive tutto unito in una sola parola, colpo di scena, effettivamente prende origine da un Santo, ma non Remo, bensì Romolo. Ma non divaghiamo.

La risposta più logica è quella che Sanremo va obbligatoriamente guardato per una serie di motivi che non c’entrano niente con la musica, perché è un meraviglioso carrozzone che annovera una serie di personaggi che sono gli alter ego di tutti noi e di tutti coloro che conosciamo e attraverso loro possiamo ridere o incazzarci con noi stessi.
Alcuni esempi.
Sembrava che la presenza in qualità di ospite di Al Bano fosse il colpaccio di questa edizione ma, quel genio del male di Amedeo Rita Sebastiani ha tirato fuori dal cilindro niente meno che Lui, il nostro meraviglioso Presidente Sergio Mattarella, il punto di riferimento di tutti noi, quel nonno che ci fa paura per la sua aria severa ma che poi, quando Benigni accenna al suo secondo mandato, in un attimo fuggevole quanto esplicito, esprime un pensiero da Vasco qualunque “Eh già…” e chissà quale altro pensiero ha attraversato la sua mente, all’indirizzo di quelli che lo hanno costretto a rimandare la pensione.
Anna Oxa sembra la zia anziana che vuole sembrare alternativa e la cui apparizione fa venire in mente Maria Antonietta alla Conciergerie, priva della bellezza e dei fasti dei bei tempi e con i capelli improvvisamente imbiancati; sono lontani gli anni di “Quando nasce un amore” e “Ti lascerò”, purtroppo.
Gli ospiti old age un altro colpo di genio, così da non portare le vecchie glorie in gara dove sarebbero stati accolti come la patetica e obbligatoria quota RSA, ma dar loro la meritata luce nel corso di un’unica celebrativa esibizione ha funzionato alla grande, a partire dai tre leoni, Morandi, Ranieri e Al Bano, impareggiabili, a tratti commoventi (confesso, ero innamorata persa dei primi due da bambina), a Gino Paoli con il suo scoop hot sul povero Little Tony degno della peggior comare di paese, fino alla Regina Ornella Vanoni, che, a mezzanotte passata, entra, comanda, canta, se ne va e lascia noi tutti lì, in estatica adorazione.

Scrivere su tutti sarebbe impossibile e noioso per chi legge, gli outfit come sempre provocano commenti (vedi “lo stilista” della porta accanto), quest’anno poi il tema tra i maschietti era a metà tra Uomo Tigre e Sampei, insomma uno scaricatore di porto, tutti col bicipite in vista da Mengoni a Ultimo a Leo Gasmann, anche se lo devo ammettere, c’erano i perché ma anche i “percome”; il look Alice ed Ellen Kessler imperversava invece tra i gruppi, prendi 2 e paghi 1 il motto imperante, con picchi di eleganza estrema come i Cugini di Campagna aka pagliette Stanhome e Paola e Chiara in Domopack style.
Menzione speciale a Pinco Panco e Panco Pinco alias Articolo 31.

La Ferragni, fashion influencer di fama interplanetaria, è risultata la peggio vestita tra le conduttrici; va bene il messaggio sulla libertà, il corpo è mio e bla bla bla ma ad una certa anche basta, sembrava di stare in una puntata di Grey’s Anatomy. Comunque, è verità universalmente riconosciuta che Re Giorgio (Armani, che ha vestito Fagnani ed Egonu) non si batte, così come il mood Audrey Hepburn dei meravigliosi abiti Moschino di Chiara Francini o gli splendidi Versace di Elodie, che hanno fatto sognare tutte le donne e anche qualche aspirante consorte della cantante.
Al rose’s killer Blanco, alla sua mancanza di rispetto per il lavoro di tanta gente, a quello che è stato il fattaccio, il Bugogate del 2023 – ma che a differenza del precedente, non ha provocato risate ma solo rabbia e tristezza – non è il caso di dedicare ancora attenzione, così come alla voglia di protagonismo estremo di Federico Lucia in arte Fedez che, emulando il principe Harry decide di non essere più lo spare della coppia e spara a salve sulla moglie accentrando i famosi hashtag tutti su di sé per 5 giorni.

E torniamo un attimo a Chiara Ferragni, criticata per gli outfit e per il monologo inconsistente, ma se qualcuno si aspettava qualcosa di diverso il problema è suo; la Ferragni è un’azienda in carne ed ossa, fattura in base alle iterazioni social, ha fatto esattamente ciò che era necessario per se stessa, certo se il monologo della prima sera fosse durato meno, forse dieci minuti dopo Blanco non avrebbe sbroccato perché fidatevi, c’è stato un collegamento tra i due momenti, dalla Chiara Ferragni bambina al Blanco bamboccione maleducato. Decisamente migliori gli altri “monologhi” dall’impegnato di Francesca Fagnani al pezzo teatrale (ma mica tanto) splendidamente recitato da Chiara Francini, per molti, me compresa, la migliore, ma lei, come direbbe Checco, “è del mestiere”.

In tutto questo ambaradan, tra uno Zorro/Mengoni e il Corvo/Elodie, tra i Jalisse/Coma Cose e le pagliette Stanhome/Cugini di Campagna, resta un’unica certezza, e non parlo dei Depeche Mode, che hanno avuto il merito di farci tornare indietro con gli anni senza immalinconirci. Mi riferisco a lui, il mitico, inossidabile, incommensurabile Gianni Morandi. Passa dal far cantare l’Inno nazionale anche al Presidente al prendere in giro la propria strepitosa carriera, (comunque ha ragione lui, Bella Belinda è orrenda), dall’incoraggiare i concorrenti in gara al saltellare sul palco che “Tombolo Dondolo, scansati!” al prendere scopa e paletta e aiutare a pulire lo scempio lasciato da uno il cui valore non arriverà mai a quello del suo mignolino sinistro, al rendere omaggio come solo lui avrebbe potuto a quell’altro mito che è stato Lucio Dalla, (come dimenticare il loro Dalla-Morandi che contribuì a risollevare la carriera del nostro eterno ragazzo). La bellezza di Gianni è tutta lì, nel rappresentare la generazione dei nostri padri usando il linguaggio dei nostri figli, nel suo essere un artista giocoso e un inossidabile professionista, in quella sua grandiosa umiltà che vale da sola una maratona di 5 ore.

Alla fine è tutto qui il segreto di Sanremo, che poi segreto non è, essere banalmente la metafora di tutti noi italiani, con i nostri pregi e difetti, con la mania di protagonismo e la critica voyeuristica sempre pronta.
Le canzoni? Ognuno di noi ha la propria favorita, godiamocele adesso ascoltandole alla radio, giudicare i gusti musicali non ha senso più di tanto, la musica ha bisogno di essere liberata dagli orpelli inutili, merita attenzione, cuore e passione altrimenti si corre il rischio che un bel tacer non possa esser mai scritto.

Gabriella Loconsole

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