Un racconto contro la violenza sulle donne e contro ogni violenza di genere: “Checchella” di Luisa Castellana Soldano

Checchella era nata di domenica, poco prima dell’ora di pranzo, e le doglie del parto erano iniziate subito dopo che la madre, al mattino, aveva messo a cucinare il ragù, per l’esattezza dopo aver sfumato la carne soffritta col vino rosso.
Era stato un travaglio rapido e doloroso, e dopo le ultime contrazioni laceranti e tre spinte disumane Checchella era venuta alla luce accompagnata da un grido, sparata nel mondo come un proiettile ad allungare la lista di ben altri cinque figli, tutti maschi, in scala da tre a sedici anni.
Fu proprio Quintino, il più piccolo dei suoi fratelli, a chiamarla Checchella, forma lallata di Domenichella, che era il nome imposto senza troppi pensieri a quella bimba nata nel giorno dedicato al Signore.

Checchella imparò presto a restare in cucina, che era l’unico posto nel quale le sembrava che una femmina potesse non impicciare in quella famiglia di maschi sempre fuori di casa. Della cucina conosceva l’odore, che pure l’aveva accolta nel mondo a ragù cucinato, e le sue giornate trascorrevano uguali, sboccoccellando un tarallo o un pezzo di pane, i suoi ciucci contadini, osservando in silenzio e col moccio al naso la madre lavorare attorno al tavolo di legno o al lavatoio.
Nemmeno la salutavano, i maschi, tornando da scuola o dal lavoro dei campi, ad ora di pranzo, lasciandola sola in un angolo e inutile per quello che era, ossia una stupida femmina.

Solo la sera Checchella, che per tutto il giorno si era riempita la pancia ed il cuore di taralli e pezzi di pane fino a scoppiare, abbandonava la sua cucina e il suo angolo, e correva in cortile ad accarezzare il cane tornato dalla compagna col padre.
Così, pensava Checchella, una carezza l’avrebbe rubata anche lei dal papà, che si sarebbe accorto della bambina di straforo, portando da mangiare al cane magro legato vicino alla casina degli attrezzi. Avrebbe dato la vita, Checchella, per una carezza di quelle mani enormi e nere, piene di calli, che odoravano di terra e di fatica e graffiavano il viso invece di allisciarlo.
Così diverse, pensava, dalle mani della madre, dall’odore di varechina o di cipolla, sempre umide e sfuggenti, troppo stanche per fermarsi sul suo viso a coccolarla.

Checchella amava suo padre senza sapere perché, e altrettanto senza coscienza odiava sua madre, che pure stava con lei tutto il giorno offrendole solo la sua indaffarata presenza, taralli e pezzi di pane.
Crescendo Checchella imparò ad uscire dalla cucina che non sentiva più sua e a spiare i tramonti, fissando il sole rosso morire tra l’erba fino a farsi bruciare gli occhi. Poi, con la vista annebbiata, la ragazzina allungava lo sguardo sui campi davanti all’aia, e vedeva in lontananza le chiome degli ulivi e dei melograni danzare, ed i tetti dei trulli allungarsi fino al cielo, prima bianchi e poi sempre più scuri, a formare ombre contrapposte simili ad antichi guerrieri.

Checchella andò a scuola per il tempo che parve sufficiente ai suoi genitori distratti, che di quella strana ragazza piena di taralli e di pane, tutta un pezzo e senza seno, più larga che lunga, non ebbero mai alcuna cura.
Di quel che leggeva sui libri alla sera, seduta su un masso sotto l’albero del carrubo, non le importava un granché, se non di quei racconti di storia dove si parlava di maschi valorosi e di grandi battaglie, di antichi romani e di guerre epocali.
Le sarebbe piaciuto fare il soldato, pensava Checchella, e stare in mezzo a tutti quegli uomini forti che combattevano, e mentre ragionava sulla sua natura guerriera si aggiustava i pantaloni smessi da Quintino e si osservava le scarpe grosse sporche di terra.
A scuola ci andava quasi ogni giorno, pur di fuggire dall’indifferenza materna, partendo a piedi dalla campagna all’ora in cui gli altri andavano a zappare la terra, e percorreva un lungo tratturo in mezzo ai trulli e alle case estive dei signori che da qualche tempo, d’estate, per due o tre mesi si venivano a rubare la tranquillità della valle.
Le piante di cardo e le spine dei rovi le graffiavano le gambe nude e sgraziate, e Checchella malediceva il grembiule col fiocco che era costretta a portare sopra ad una stupida veste. Le femmine con la veste ed i maschi con i pantaloni, diceva la maestra, e Checchella che si sentiva più maschio che femmina, si guardava le gambe di fuori e piangeva.

Pure in classe il suo posto era vicino alla fila dei maschi, lontana il più possibile dalle compagne profumate e acchittate che manco la toccavano se lei si avvicinava per sbaglio, facendo ai ragazzi smorfie di scherno e disgusto, che questi ricambiavano dandosi di gomito e scambiandosi cenni d’intesa.
Sicché Checchella non piaceva né ai maschi né alle femmine, e nemmeno ai suoi professori, che ne tenevano il conto che si deve a una bestia.

Presto Checchella si ritirò dalla scuola.
Nessuno venne a cercarla in campagna per riportarla ai suoi obblighi, nessuno in famiglia insistette per farla tornare a studiare, ritenendola carne persa buona soltanto a mangiare taralli e pezzi di pane.
Checchella, allora, buttò nel pozzo la veste e il grembiule, sputandoci sopra, si rimise i pantaloni di Quintino e le scarpe grosse sporche di terra, e decise che da allora in poi sarebbe stata Domenico, il sesto dei suoi cinque fratelli.
Prese ad alzarsi ogni giorno all’alba, a lavarsi la faccia di corsa e a pettinarsi i capelli corti all’indietro, e a mettersi dietro al cane per seguire i maschi di casa in campagna. Ogni giorno in silenzio, senza aver mai parlato o giustificato la sua nuova apparenza, essendo bastato uno sguardo triste e rabbioso del padre a significare che tutti avevano capito.
Capito soltanto, e manco accettato, che della sua vera natura non importava niente a nessuno.
Solo Quintino la chiamava ancora Checchella, e ogni volta Domenico alzava la testa dalle piante di fave e gli gridava che era un cretino, che lui era un uomo e che Checchella era morta per sempre annegata nel pozzo insieme alla sua stupida veste.

Con i pantaloni e la zappa Domenico si guadagnò pure la piazza la sera, in paese vicino al belvedere sulla valle, dove gli uomini con la coppola, la camicia sdrucita col collo sporco dalla pelle brunita dal sole, le mani in tasca e lo sguardo fisso per terra, discutevano del prezzo dell’olio e della penuria di mandorle. Stava sempre un passo indietro al padre, sputando ogni tanto per terra per sentirsi più uguale, col mento ficcato nel bavero della giacca per non mostrare il suo viso senza peli che ancora ricordava Checchella.
Nessuno dei suoi conoscenti, però, gli si rivolgeva nemmeno per sbaglio, così come anche a scuola accadeva, lanciando solo ogni tanto uno sguardo a suo padre, che rispondeva scuotendo il capo ad ammettere la disgrazia in famiglia e a confermare il fastidio che provava di averlo dietro le spalle.
Solo un gruppetto di giovani che andavano a giornata in campagna, senza un ingaggio sicuro, pareva averlo notato e voler attaccare bottone, e gli gironzolava intorno fermandosi a tratti poco distante da lui, guardandolo di traverso, e senza avere il coraggio di avvicinarlo davanti a tutti gli altri e parlargli.
U figghie d’Antonio, dicevano scambiandosi sguardi malati lontano dagli occhi di tutti per non mettersi in bocca ai giudizi dei vecchi, iev ‘na mezza femena, e poteva essere buono per farci qualcosa, quel porco.

Faceva ancora caldo al tramonto, quel giorno che Domenico si era stancato di stare come un cane dietro al padrone, in piazza, e si era avviato a piedi verso la sua casa fra i trulli.
L’aria era tersa nonostante il calore del giorno, e solo un filo di vento si infilava correndo da una parte all’altra della valle smuovendo appena le punte delle spighe di grano.
Un immenso mare di pace fra il verde e l’oro si apriva davanti ai suoi passi, e gli si richiudeva alle spalle, a sigillare tutto quello che si lasciava indietro.
I pensieri di Domenico urlavano forte nella testa, sovrastando ogni altro rumore che non fosse la vibrazione avvertita di qualche animale o di qualche scorzone nascosto fra l’erba a caccia di topi.
Nemmeno quelli, i serpenti, gli facevano più paura, perché dovevano essere proprio come lui, soli e schifati da tutti, guardati da lontano e scansati senza che nessuno abbia mai il coraggio di provare a toccarli.

Fu così che Domenico non sentì i passi affrettati dietro di lui, e le risa soffocate del gruppo nascosto dietro agli alti rovi di more abbarbicati ai muri a secco più indietro.
In un attimo gli furono sopra, come lupi rabbiosi addosso alle pecore, e grugnendo come porci, e ansimando forte, violarono fra i pugni ed i calci quel che restava della Checchella bambina, e si presero tutto.

Anche la vita si presero, in quel caldo tramonto fra i trulli, che smisero di stagliarsi alti verso il cielo come antichi guerrieri per piegarsi sul corpo straziato di Domenico, nato per errore Checchella.

Luisa Castellana Soldano

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