L’ingiusto silenzio sulla Callas, la Guernica della vocalità

Il 16 settembre 1977, intorno alle 13.30, ci lasciava Maria Callas, che, solo tre mesi dopo, avrebbe compiuto 54 anni. Le sue condizioni fisiche erano da tempo compromesse. Il referto medico indicò l’arresto cardiaco come causa del decesso, smentendo le voci di suicidio.
Sono trascorsi 44 anni dalla sua scomparsa e anche qui, come per Luciano Pavarotti, nulla è stato ricordato di questo grandissimo, inimitabile ed irraggiungibile soprano “italiano” (e quando dico nulla, faccio riferimento ai più grandi teatri, dove lei ha trionfato per molti anni, ed anche alle nostre Autorità); si, italiano, perché il successo mondiale di Maria Callas è partito proprio dall’Italia, avendo avuto come suo coniuge ed impresario Giovanni Battista Meneghini, tanto è vero che per tanti anni veniva presentata come Maria Meneghini Callas, cognome che poi abbandonò quando si separò da suo marito. Anche se poi lei, che aveva la cittadinanza statunitense, optò per la cittadinanza greca, quella del luogo di origine dei suoi genitori.

“Repubblica” alcuni anni orsono nello speciale “Robinson” ricordò il suo mito. Ma oggi niente. Perché questa data deve essere scandita anno per anno in riferimento al grande ed imperituro mito derivante dalla sua grandezza vocale e teatrale. Allora per meglio ricordarla, ancora una volta, riporto qui di seguito un bellissimo articolo di Alessandro Baricco apparso su Repubblica del 14 settembre 1997 nella celebrazione del ventennale della sua scomparsa. La chiamavano la Divina e Baricco su Repubblica volle questo titolo: “Silenzio canta la Callas. La Guernica della vocalità” per indicare, al pari di Guttuso, la rivoluzione che la Callas aveva portato nel mondo, alcune volte bugiardo, del melodramma, del nostro melodramma.
“Aveva una bellezza beffarda, di quelle che compaiono e scompaiono, da una foto all’ altra, lasciandoti la curiosità di sapere com’ era, veramente, quel viso”. “E aveva una voce che ha segnato la storia del teatro musicale come una ferita mai guarita”. “A leggere i libri su di lei, ti fai l’ idea di una donna a cui la fortuna di un destino straordinario negò il piacere di un’ ordinaria felicità”. “Morì nel modo più silenzioso possibile, in una lussuosa casa di Parigi, il 16 settembre di vent’ anni fa”. “E’ morta la Callas, annunciarono, stupefatti, tutti i giornali del mondo. Adesso che il rito dei ricordi si scatena, cavalcando l’ aritmetica solennità del ventennale di quel giorno triste, bisognerebbe spiegare alla gente il perché di questa nostalgia inguaribile e di questa dilagante esibizione di affetto postumo”. “Mica facile. Bisognerebbe farli tacere, tutti, per qualche minuto, e spedire nell’ aria lei che canta “Amami Alfredo”: poi spegnere tutto e andarsene”. “Magari fermarsi ancora un attimo e lasciar cadere lì solo una frase, giusto per dare un indizio: non aveva una bella voce, lei”.  “E via. Una volta mi finì nel registratore una cassetta maligna, dove c’ erano lei e la Tebaldi, una dopo l’ altra: e cantavano “Ebben? ne andrò lontana”, dalla Wally di Catalani. Non per tornare maniacalmente su una rivalità che ai tempi divise il popolo dell’ Opera: ma aiuta a capire”. “Dunque. Per prima cantava la Tebaldi. Una meraviglia. Gli era venuta bene, a Catalani, quella pagina, niente da dire, l’aveva proprio imbroccata: ma bisogna anche saperla cantare così. Se ne filava nell’ aria, quella voce, come il profilo di un paesaggio perfetto, illuminato da una luce senza esitazioni, disegnato per dimostrare che la perfezione è possibile, e dolce. Una cosa da rimanere imbambolati, veramente”. “Poi c’era un breve nero, e dopo: la Callas. Ti arrivava addosso, con le prime note, e quello che sentivi, immediato, era che improvvisamente l’ incantesimo si era rotto, il paesaggio si era come oscurato, e quell’ idea di perfezione, polverizzata”. “C’era, in quella voce, una piccola catastrofe: ci vedevi franare una certa idea di bellezza – olimpica, equilibrata, ordinata – e tra le macerie ti trovavi davanti qualcosa che non conoscevi. Qualcosa come una bellezza in fuga, inseguita dalla vita”. “E il paesaggio incantevole che avevi visto non c’ era più, lì, davanti agli occhi. Perché ce l’ avevi addosso. E tu eri paesaggio, e lei con quella voce, e il buon Catalani, e tutto. Più nulla davanti, e ogni cosa addosso”. “Per questo è difficile dimenticarla, adesso: la sua voce è stata la Guernica della vocalità: ha squarciato qualcosa, e non c’ è stata sutura capace di far dimenticare quel meraviglioso choc”. “Saliva sul palco e squartava il guscio della bellezza, per liberare una specie di esplosione che era musica, sì, ma prima ancora, vita evasa dalla prigione di una tranquillizzante eleganza, e storia che da lontano ti correva addosso come se da anni ti stesse cercando”. “Lei non cantava mai: raccontava. Aveva questa misteriosa capacità di addensare in ogni nota il crepitìo di una storia. Le riusciva di racchiudere, in una frase, interi destini. La sua Violetta Valery non canta una nota in cui non sia scritta la sua morte: e quando muore, c’ è vita che scappa da tutte le parti, in quelle note”. “Non so come facesse: ma si sente puzza di agonia quando esplode il suo “Sempre libera degg’ io”: e profumo di champagne, intorno al suo letto di morte”. “Non so come facesse, ma so che, se era un trucco, non è più riuscito a nessuno”. “In questo senso, lei è stata probabilmente il punto di massima modernità mai raggiunto dalla prassi interpretativa del teatro musicale. Una specie di viaggio pionieristico al di là delle convenzioni, e della tradizione”. “Portò tutti in un luogo oltre, in cui il galateo un po’ pacchiano del canto d’Opera veniva abbandonato in favore di una presa diretta, per così dire, sulle storie”. “Usava le sue straordinarie qualità vocali non per comporre un ordine, ma per dominare un’ esplosione”. “Liberava il teatro, non lo incorniciava nella sua bravura, o in un astratto ideale di bellezza: e così distruggeva il museo, e l’ Opera diventava scheggia di storia viva, sparata a ferire il tempo reale”. “Lei cantava: e non erano riti postumi: era presente che accadeva”. “Forse è per questo che non ci riesce di dimenticarla: è la rivoluzione che non abbiamo fatto”.

Franco Zeffirelli: “L’emozione di quel suono… la sua voce, che udivo per la prima volta, giungeva attraverso i timpani fino ai nervi, alle cellule più segrete e recondite della mente, del cuore”Tutte le cantanti, ma anche i cantanti, sono stati folgorati dal passaggio della Callas. Io dicevo per scherzo, ma temo che sia un’assoluta verità, che la storia dell’opera si divida in ‘avanti Callas’ e ‘dopo Callas’. Resterà nella storia come la più grande voce che sia mai arrivata sulla terra, perché le condizioni che l’hanno prodotta – una cultura musicale che non esiste più – sarà difficile che si ricreino. La sua personalità e la sua arte erano il frutto di congiunzioni di stelle che avvengono ogni millennio’. L’ho amata molto, la rispetto come una delle più grandi personalità che io abbia mai conosciuto e credo che il silenzio, la preghiera, l’ammirazione e il sentire la sua voce siano la maniera migliore per celebrarla-La nostra è un’epoca in cui si è spezzato il filo d’oro di una cultura ed è difficilissimo rimetterlo insieme;  è impossibile che rinasca una Callas, come è impossibile che rinasca un Michelangelo o un Beethoven’‘.

Franco Corelli: “Era nata per cantare e per stare sulla scena. La musica e la sua voce entravano dentro il cuore, lei produceva melodia. Aveva dentro di sé, dentro la sua voce, la vita.”

Carla Fracci: “La Callas?… L’ho guardata proprio da vicino con occhi, cervello e orecchi spalancati. L’ho proprio divorata con occhi cervello e orecchi. L’ho amata come solo il fervore dell’adolescenza permette.”

E poi la storia di un amore impossibile per Pier Paolo Pasolini. “Una passione platonica, lei voleva convertirlo all’eterosessualità”, racconta Dacia Maraini. Io li sorpresi a baciarsi, lui la adorava. E la sua mamma tifava affinché si sposassero», ricorda Piera Degli Esposti. E quindi i segreti, le memorie e le gelosie della struggente love-story fra la soprano e il regista ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975. Quando Maria Callas e Pier Paolo Pasolini s’incontrarono, lei era reduce da nove anni d’amore con il miliardario Aristotele Onassis, “nove anni di sacrifici inutili”, aveva commentato amareggiata. Il tycoon greco l’aveva piantata in asso per sposare Jackie, la vedova di John Fitzgerald Kennedy.  Lei di Pasolini non era curiosa affatto, era convinta che fosse uno dei soliti intellettuali comunisti e barricaderi. Il regista, da parte sua, temeva la diva viziata e capricciosa, usa a lussi che lui aborriva. Li fecero incontrare Franco Rossellini e Marina Cicogna, che dovevano produrre la Medea di Pasolini e avevano pensato alla Callas come protagonista. In quei mesi, tra il 1968 e il 1969, anche il regista era amareggiato per motivi sentimentali. La sua ossessione aveva un nome, Ninetto Davoli, che lo faceva impazzire, poiché sosteneva che gli era impossibile innamorarsi. Quello fra la Callas e il regista ucciso il 2 novembre 1975, fu un amore struggente e incompiuto, l’incontro di due anime fragili ed inquiete. Nelle lettere, lei si firmava “Maria fanciullina”, lui le scriveva “tu sei come una pietra preziosa”. Maria faceva di tutto per stargli accanto, lo seguiva nelle trasferte più disagevoli e in occasione del Natale lo accompagnò in Africa per i sopralluoghi di un’Orestiade che non sarà mai girata. Con loro, c’erano Alberto Moravia e la stessa Maraini, che a Io Donna, ha raccontato: “In Mali, facevamo i casting tra le capanne, non era comodo, ma Maria era innamorata di Pier Paolo e si illudeva di convertirlo all’eterosessualità. Sul palco era un drago, ma nella vita era una bambina di un’ingenuità sconfinata“. E Pasolini? “La amava, ma di amore platonico”, sostiene la Maraini. Ma c’era qualcosa in più del platonico. Non solo perché i paparazzi, a un certo punto, li sorpresero a baciarsi sulle labbra in aeroporto. Piera Degli Esposti, nel 1969, recitava in Medea. Al magazine Sette ha raccontato: “Avevo la particina di un’ancella, priva di battute, ma Pasolini mi faceva fare la controfigura di Maria: non voleva che lei si stancasse troppo. Anche lui la amava. Ricordo la dolcezza con cui esclamava: “Sei splendida, Maria”. Li ho sorpresi che si baciavano, abbracciati, nella sala costumi. La madre di Pier Paolo, Susanna, voleva che si fidanzassero. Quando giravamo a Grado o a Pisa, la signora Pasolini arrivava tutti i sabati e faceva lunghe chiacchierate con Maria, che era di splendido umore, era allegra, e a tavola rideva, coi bigodini in testa, perché era innamorata. Un giorno, si incendiò un capanno sulla spiaggia, c’eravamo tutti e anche la Callas, Pier Paolo arrivò correndo e urlando “Maria”. Per lui, noi altri potevamo anche essere morti, gli interessava solo Maria“.

La Callas ci credeva. Finito l’ultimo ciak, nella laguna di Grado, Pasolini le regalò un anello: un’antica corniola di Aquileia incastonata in una veretta d’argento con fregi romanici, che aveva fatto cercare con cura all’amico pittore Giuseppe Zigaina, originario di quelle parti. Maria scambiò il dono per una dichiarazione, per il preludio a una richiesta di matrimonio che tuttavia non sarebbe mai arrivata. L’estate successiva, quella del 1970, la passarono insieme. Stettero un intero mese a Tragonisi, un’isola dell’Egeo di proprietà di Perry Emiricos, un melomane e armatore e miliardario greco, amico della Callas. Non era il genere di invito che poteva allettare Pasolini, il quale invece accettò: anche lui non sapeva stare lontano da Maria. Furono lunghe giornate e serate di chiacchiere e confidenze, in cui si raccontarono la loro intere vita. Di giorno, in spiaggia, lui la ritraeva su foglietti ripiegati in quattro, intingendo un pennino in infusi di petali di fiori e acqua di mare. Di quell’estate, restano 14 ritratti di Maria e dieci poesie a lei ispirate, che Pasolini compose quando di notte, immancabilmente, si ritraeva e si ritirava nelle sue stanze.
Maria Callas in quei versi pubblicati nella raccolta Transumanar e organizzar  non veniva mai nominata, eppure era lei la “ragazza ancora orgogliosa di essere di città e piena della morale antica” e nelle poesie spunta anche un anello che allude a un “momento della verità”. In riva al mare di Tragonisi, Maria non aveva smesso di sperare. E riprese a crederci, poco dopo, quando Ninetto Davoli s’innamorò di una ragazza e decise di sposarsi, lasciandole libero il campo, almeno in teoria. Ora, la Callas era convinta che come Davoli, anche Pasolini potesse scegliere l’eterosessualità, la famiglia, i figli. Ma la disperazione di Pier Paolo era troppo grande. Nell’agosto del ’71 aveva scritto all’amico Paolo Volponi: “Sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia“.
In quei giorni, la Callas aveva scritto al suo Pier Paolo: “Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico, sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene, in fondo, che sarebbe andata così. Ti ricordi a Grado, in macchina, si parlava con Ninetto di amore e che so io e dentro in me le mie antenne, tu dici, me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si innamorerebbe mai. Sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu, in fondo, uomo tanto intelligente lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno fatto da te solo perché è così, anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola…”.

 Finì lì, però. L’incontro d’anime, l’amore impossibile, si sfilacciò fra gli impegni dell’uno e dell’altra, Maria a Parigi, Pier Paolo a Roma. In fondo, la Callas stessa aveva vissuto “un sogno fatto da lei sola”, come in uno dei versi scritti da Pasolini nella solitaria notte di Tragonisi del 10 agosto 1970: “Ma tu dirai ciò che dicono le ragazze selvagge, su quel molo umile, abitato da due soli corpi, parole che non hanno nessuna risonanza nella realtà”. Il che, poi, era un po’ quello ch’era accaduto all’attrice Laura Betti, la quale sosteneva che lei e Pasolini “avevano i loro ninetti” ma che “erano una coppia” e che non digerì mai la stagione d’intesa fra la Callas e Pasolini. Ricordando la partenza dei due per l’Africa, ammise: “Ero gelosissima. Per farsi perdonare, Pier Paolo avrebbe dovuto farmi un grosso, grosso regalo; proprio come un marito, qualcosa che gli costasse molti soldi“.

In chiusura d’articolo, mi piace ricordare la Callas con le parole del grande Luchino Visconti: “Questa riforma del metodo di immedesimazione coinvolge anche il cantante-attore, ma evidentemente un po’ meno, no? La recitazione lirica, melodrammatica, è diversa; è una recitazione enfatica, nella quale vanno sottolineate certe cose. E diretta con un metodo diverso da quello che si usa in prosa”. “Certo, esistono casi come quello di Maria Callas, per esempio. Siccome Maria Callas ha un temperamento di attrice oltre che di grande cantante, ha un temperamento di grande tragica, in quel caso subentra anche un lavoro di profondità, come per un attore di prosa”. “La Traviata, per esempio, con Maria mi ha consentito di fare un lavoro come sarebbe stato con un’attrice di prosa,; forse perché il personaggio si prestava più che altri; poi perché la Callas ha un temperamento sul quale si lavora con grandissimo piacere, ma pur sempre con una certa deformazione rispetto alla prosa”. “Si sa bene che il melodramma richiede una specie di dilatazione dei sentimenti dei gesti, degli atteggiamenti, ecc. Con la Callas si può arrivare a tutto ciò con molta facilità, perché lei vi è portata, però con un controllo, con una finezza, con un gusto straordinari… al contrario di molti altri cantanti peri quali il cantare un’opera è una cosa definita da tre o quattro gesti di maniera, che ripetono  per tutto il corso dello spettacolo”.

Allora concludo per quanto mi riguarda: Maria Callas, anzi Maria per sempre.

Nicola Raimondo

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