L’Italia di Mancini: l’umile fenice del calcio europeo

Dalle ceneri del mancato Mondiale 2018 è nata una fenice.
Piccola, spelacchiata e spaesata.
A guardarla era difficile credere che sarebbe diventata leggendaria. Ma le fiamme non le facevano paura: le fiamme le aveva negli occhi.

Chi ha seguito la squadra di Mancini avrà sicuramente sentito dire in questi giorni: “Se ce l’avessero detto un anno fa che saremmo arrivati a disputare la finale degli Europei di calcio, non ci avremmo creduto …”. E forse non ci credevamo neanche noi tifosi che, senza le gambe forti di quei gladiatori che nel 2006 salirono sull’Olimpo, ci sentivamo ormai disillusi e senza patria.
Mister Mancini non aveva nulla da perdere: dal baratro in cui era precipitata l’Italia del calcio dopo la rovinosa caduta con la gestione del CT Ventura, si poteva solo risalire. Ha preso 26 ragazzi e li ha fatti diventare una cosa sola: li ha fatti diventare un gruppo di amici che si diverte a giocare. Non ci sono eroi. Non c’è quell’unico uomo su cui contare come già era accaduto, ad esempio, con Baggio. Non ci sono 11 titolari ma 26 e, a parte Meret, terzo portiere, tutti sono riusciti a scendere in campo e sentire l’odore dell’erba e del successo.

Ed è questo che forse ha fatto la differenza: tutti si sentivano utili e sapevano che avrebbero dovuto farsi trovare pronti qualora Mancini li avesse chiamati, fosse anche solo per cinque minuti. E così questa Italia, che sembrava piccola, è cresciuta riuscendo a stabilire il record di 34 incontri vinti consecutivamente da ottobre 2018, finanche superando la nazionale di Pozzo che vinse il Mondiale nel 1938.

In un Europeo di grandi squadre che hanno interrotto prematuramente il loro cammino, gli Azzurri hanno scalato la vetta un centimetro dopo l’altro, senza curarsi di chi diceva che avevano avuto fortuna e che presto sarebbero caduti. E lo hanno fatto sorridendo e tacendo, come solo l’intelligenza sa fare, non dando nulla per scontato, non lasciandosi abbattere neanche dall’infortunio di Spinazzola, facendolo diventare il motivo principale del loro incedere coraggioso.

E così abbiamo potuto assistere ad un Campionato Europeo di calcio surreale ed emozionante.
Non dimenticheremo mai il “porca puttena” di Ciro Immobile gridato davanti alla telecamera dopo il goal per onorare la promessa fatta a Lino Banfi, e Cristiano Ronaldo che fa crollare in borsa il colosso Coca Cola.
Sarà difficile cancellare dalla nostra mente le immagini violente della vita di Eriksen che sembrava scivolare via, Kjaer, il capitano, che lo soccorre prima dell’arrivo dei medici per poi invitare la squadra a fare da scudo al corpo esanime del compagno e amico che sobbalza durante la rianimazione, le lacrime della giovane moglie e infine il sospiro di sollievo per quella vita trattenuta sulla terra.
Come rimanere indifferenti davanti ai cognomi dei calciatori storpiati dalla nostra giornalista Rai Paola Ferrari e il presunto plagio degli U2 ai danni dei Pinguini Tattici Nucleari?
Per non parlare del paracadutista di Greenpeace atterrato durante Francia-Germania, entrambe favorite e ritrovatesi con un pugno di mosche insieme al Portogallo.
Non dimenticheremo l’umiltà dei nostri ragazzi contrapposta all’arroganza delle squadre più blasonate, indicate, alla vigilia, tra le possibili vincenti. Del Belgio che, il giorno prima della partita, pubblicava un post che ritraeva i suoi tre migliori giocatori come gladiatori ruggenti con ai loro piedi la maglia italiana nella polvere di un’arena e la scritta “Veni, vidi…”. Dei francesi che hanno denigrato gli Azzurri per aver vinto contro squadre come la Svizzera o la Turchia, per poi ritrovarsi a perdere proprio contro gli svizzeri. O degli inglesi che erano convinti di “riportare a casa” il calcio e poi si sono tolti dal collo la medaglia d’argento appena vinta, gesto davvero deplorevole, e vien da chiedersi se lo abbiano fatto per l’orgoglio ferito per la mancata vittoria o per la consapevolezza di non aver meritato nemmeno quella, per aver trionfato in semifinale contro una meritevole Danimarca, grazie ad un rigore completamente inventato.

Ci hanno provato ad intimorire la nostra nazionale, a provocarla, ma l’eleganza di Mancini ha insegnato ai nostri ragazzi a non reagire alle provocazioni e a dimostrare, prima di parlare, di che pasta siamo fatti noi italiani.

Ricorderemo questo Europeo come quello di Mancini e Vialli, amici da una vita, insieme tante volte sul campo in maglia azzurra e ora in giacca e cravatta: è l’Europeo della loro esultanza, dei loro abbracci, delle loro lacrime di gioia, di una sfida vinta insieme contro ogni pronostico e di una battaglia ancora in corso contro un nemico insidioso per Vialli, ma che nulla può contro la voglia di esserci.

Ma il ricordo più indelebile sarà la gioia provata da ognuno di noi, dopo più di un anno di tristezza a causa del Covid, mentre gli Azzurri sollevavano la coppa in un tripudio di fuochi d’artificio, il Wembley Stadium che si veste del nostro tricolore e i quasi settemila tifosi lì presenti che si uniscono all’orgoglio dei sessanta milioni di increduli italiani, che forse non ci credevano sino in fondo, ma che, almeno un po’, hanno sperato che l’11 luglio potesse portare bene ancora una volta come nel 1982.
Ed è stato così.

Ed ora godiamoci il sogno e teniamolo stretto perché tra poco più di un anno, a ridosso del Natale, ci aspetta il Campionato del Mondo in Qatar.
Sarebbe bello addobbare l’albero con palline verdi, bianche e rosse.
Quindi scaldiamo le voci e prepariamoci a gridare ancora “Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”!

Mayra D’Aprile

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1 commento su “L’Italia di Mancini: l’umile fenice del calcio europeo

  1. Nicola Raimondo Rispondi

    Bellissimo. Allora albero di Natale con palline verdi, bianche e rosse. Ma non solo palline, ma anche luci alberi finti, coriandoli e Forza Italia. Ovviamente non quella di Berlusconi. Benvenuta tra i Guasconi di Cirano, gentilissima Mayra. E augurissimi

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