Le Voci dell’Umanità – Capitolo I: Le voci delle donne

C’è stato un tempo in cui alle donne era vietato l’accesso alle arti, un tempo in cui addirittura, parlando di teatro e di canto, per tenere i ruoli delle donne lontani dalle donne, era diffusa l’orribile pratica dei castrati, e di travestire gli uomini da donne.
Avrei voluto raccontare un’evoluzione della storia secondo cui questo retaggio millenario fosse stato travolto da un’istanza largamente diffusa tra uomini e donne.
Avrei voluto vivere in un’epoca in cui essere brava e bella, o brava, o bella, non fosse una condanna, un’epoca in cui ci fosse la libertà di essere se stesse, non per forza straordinarie, per avere le stesse opportunità di un uomo.
L’opinione pubblica, la morale civile, faticano ancora a scardinarsi dall’idea secondo cui, nel dubbio, una donna non è adeguata. La bellezza è travisata come espediente, la competenza come minaccia all’ordine precostituito, l’assertività come elemento divisivo, la mitezza come debolezza, la normalità come impresentabilità.
Tutto, e il contrario di tutto, nelle arti, come in tutti i contesti, la discriminazione è paradossalmente democratica.

Secoli di status quo hanno creato una specie di memoria ancestrale, quasi infissa nei cromosomi, che spinge una donna a non credere in se stessa, ma nemmeno nelle altre donne, e in questo suicidio sociale di massa, pretendere che qualcuno crei delle occasioni per le professioniste, e per le artiste nella fattispecie, e che si decida a stimarle, è quantomeno utopico. Lo sanno bene le professioniste dello spettacolo, che si sono finalmente riunite nel movimento del #metoo. Innanzitutto, lo scontro è stato con un sistema precostituito a puro piacimento di chi lo sfruttava, a scapito del talento di chi è stata sputata fuori dallo stesso sistema perché ritenuta “difficile”. Poi, il fronte dell’indifferenza, di uomini e donne, di fronte a tali dinamiche ritenute incontrovertibili. Infine, quello che gli anglofili definiscono il victim shaming, che nella nostra lingua si definisce come “Se l’è cercata”, un meccanismo di inversione delle responsabilità che misura unicamente l’etica di chi lo pensa.

Se poi, oltre all’essere donna, un’artista nasce con altri goal di svantaggio, come l’appartenenza ad un’etnia bersaglio di odio, o un’estrazione povera, o vive una sessualità fuori dai soli dettami di madre e moglie, gli ostacoli si moltiplicano. Non esistono economie di scala quando si parla di sofferenza, o sconti comitiva per il dolore. Il dolore si aggiunge al dolore. Per fortuna nostra, più che delle artiste in questione e dei loro vissuti, il talento si aggiunge al talento.

Janis Joplin affermava che “Sul palco faccio l’amore con venticinquemila persone, poi me ne torno a casa da sola”. Pur essendosi legata sentimentalmente solo a uomini, Joplin ha avuto delle relazioni multiformi, con donne e con uomini, il cui legame era fondato sì sulla passione, ma anche su eccessi in comune o affinità artistiche. Joplin era spigolosa, affetta da un fascino feroce, abituata ad avere a che fare con ambienti maschili, quale il mondo della musica blues, folk, rock, era ancora più di oggi, e aveva un rapporto controverso con essi: bullizzata sin dal liceo, per il suo anticonformismo, spesso provocava volutamente tali reazioni, per innescare una spirale “scontro/ricorso alle sostanze tossiche/creazione/performance”, che somigliava in maniera crescente ad un circolo vizioso, difficile da spezzare. Un temperamento così caustico era padre e figlio delle dipendenze, affettive e non, della cantante. Questa cosa, applicata ad una donna, faceva (e fa) paura. In una settimana in cui una partita di eroina tagliata male fece decine di vittime a Los Angeles, Janis Joplin fu trovata uccisa dall’ultimo buco (aveva appena buttato il resto della roba). Il telegramma che annunciava il ritorno del suo amato David Niehaus, per cui Joplin aveva promesso di lasciare il fidanzato Seth Morgan e l’amante Peggy Caserta, atteso da settimane, fu ricevuto la mattina dopo la morte di “Pearl”.
E’ una delle vittime cui la maledizione del “Club J27” ha chiuso gli occhi per sempre, spalancando le porte dell’immortalità.

Billie Holiday. “Lady sings the blues”, “Lady Day” come la ribattezzò Lester Young, ce le aveva tutte: nera, poverissima, costretta a subire violenze e a prostituirsi da prima dell’adolescenza, tutte cose che condizionarono il suo modo di vivere le relazioni, ma soprattutto di creare e cantare il blues e il jazz. Tutti i suoi “me ne sbatto altamente” le hanno provocato non pochi problemi con l’industria discografica, sia per le scelte artistiche, che non sempre chi ha creduto in lei ha potuto spalleggiare, che per le discontinuità dovute ad un rapporto intermittente con droga e alcool. Il “me ne sbatto altamente” più celebre fu quello per “Strange Fruit”, canzone composta e cantata su un poemetto di Abel Meeropol, dedicata all’immagine di alcuni operai neri, impiccati agli alberi e linciati, come fossero per l’appunto degli strani frutti, per aver rubato un cavallo. Billie Holiday l’ha composta e cantata malgrado un sontuoso contratto con la Columbia. Purtroppo per lei, l’intermittenza nel rapporto con droga e alcool divenne sempre meno intermittente, e la giustizia e le forze dell’ordine non erano particolarmente clementi con una donna, nera, trovata con la droga addosso, magari in uno stato alterato.
L’esercizio di astrazione sulla sua condizione di donna e di nera, rispetto alle stesse contestazioni contro un uomo bianco e abbiente, non è poi così difficile, visti i ragazzi neri e disarmati che vengono ancora uccisi ai giorni nostri. Sta di fatto che Billie Holiday morì a 44 anni, per le conseguenze di una cirrosi epatica, piantonata in ospedale dalla polizia, perché stava scontando una pena per detenzione di droga, con 750 euro nel cappotto e 70 centesimi sul conto bancario.

Skin, al secolo Deborah Anne Dyer, l’ha dichiarato da subito, da che parte sta, nel primo album degli Skunk Anansie, in cui campeggia una canzone che non manca mai a chiusura dei concerti della band, sin dal 1995:
Who put the little baby swastikkka on the wall
Who put the little baby swastikkka on the wall
It wasn’t very high couldna been more than four years old
That’s who put the little baby swastikkka on the wall

(Chi ha messo quella svastica piccolina sul muro?
Non è questa gran genialata, sarà stato uno che non ha più di quattro anni
)
Lesbica, amante sfegatata dell’Italia, artefice di look futuribili, taglienti, capace di cantare a vette inarrivabili, anche mentre il pubblico la sorregge a testa in giù.
Tutto questo è Skin. Rappresenta una generazione di donne che afferma e si afferma, che canta con uguale intensità il lato oscuro dei sentimenti e l’impegno civile.

Nel febbraio 2015, Antony Hegarty, leader della band Antony and the Johnsons, dichiara di riferirsi a se stessa come Anohni, artista, donna, e chiede al mondo di fare lo stesso. Amica di Lou Reed, collaborazioni con miriadi di artisti, come Björk, anche italiani come Battiato ed Elisa, la sua arte multiforme ci parla dell’umanità del futuro, senza etichette di stile, ma con rispetto della Persona che ognuno di noi matura nella propria coscienza. E la coscienza di Anohni non si chiude solo sull’identità di genere, ma anche sui rapporti di potere negli Stati Uniti, paese di cui è cittadina, e sul rispetto del Pianeta, di cui tutti siamo abitanti.
Questa è la dimostrazione che battersi per una disuguaglianza equivale a portare tutte le disuguaglianze all’attenzione degli altri.

La bonus track di questo viaggio è Frances McDormand. Fresca vincitrice del terzo Oscar da attrice protagonista, stavolta per “Nomadland” (dopo “Fargo” e “Tre Manifesti a Ebbing, Missouri”, che la proietta nel Gotha della cinematografia mondiale. Meglio di lei, solo Katharine Hepburn (che per giunta ha vinto uno dei quattro Oscar ex aequo), e a pari merito con Ingrid Bergman e Meryl Streep. McDormand, figlia e sorella di pastori protestanti, carriera di ferro dopo gli studi a Yale, recita con la sua faccia, senza trucco, senza artifici, esattamente com’è andata a prendersi la statuetta, coi capelli non lavorati dal parrucchiere, struccata.

Circa la sua forza, ha affermato: “Mi è stato spesso detto che non fossi qualcosa, tipo che non sono abbastanza carina, non abbastanza alta, non abbastanza magra, non abbastanza grassa. Ho pensato: Ok, un giorno avrete bisogno di qualcuno che è no, no no, ed eccomi lì”.

Beatrice Zippo

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1 commento su “Le Voci dell’Umanità – Capitolo I: Le voci delle donne

  1. Mario Boezio Rispondi

    Articolo interessantissimo, dal punto di vista stilistico e storico. Per fortuna le donne, specialmente nel mondo dell’arte, hanno capovolto la realtà. Negli altri settori c’è ancora da lavorare. Congratulazioni allautrice, Beatrice Zippo.

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