Scrivere della propria madre per metterla al mondo: lo splendido esercizio letterario di Annie Ernaux e del suo “Una donna”

Soltanto l’altro ieri ho sconfitto il terrore di scrivere in cima a una pagina bianca, come l’inizio di un libro, non di una lettera a qualcuno, <<mia madre è morta>>“.

Sono solo le parole a rendere reale il reale, se le cose non le nomini, non esistono: è questa la croce e delizia di Annie Ernaux, questa signora dal volto magro e spigoloso, incorniciato da capelli vaporosi e leggeri che scorgo sull’immagine che vi sottopongo: dare forma di parola agli eventi, specie quelli che scatenano i sentimenti più contrastanti e più indicibili, come appunto quello della morte della propria madre; evento che viene scandagliato in ogni suo angolo in questo libro intitolato “Una donna“, edito da L’Orma Editore, nel 2018.
La scrittrice francese lo sa bene: solo le parole possono garantire l’esistenza del reale e di ciò che è stato. L’intento è dunque quello di dare testimonianza dell’esistenza di sua madre, dei luoghi che l’hanno vista prima bambina e poi adolescente, delle sue scelte, dei suoi amori, dell’autrice stessa in quanto figlia. Figlia che raccoglie il testimone del filo matrilineare e si autodichiara “archivista” di questa storia normale, niente di speciale, che diventa però materia letteraria nel momento in cui l’obiettivo diventa quello della ricerca della verità sulla madre: che donna era, cosa pensava, cosa ho visto io di mia madre, in quale ordine racconterò i fatti e gli eventi, quali parole utilizzerò, quali sensazioni arriveranno ora ad ammansirmi, ora a disturbarmi.

L’esercizio letterario dell’autrice è un cerchio che si chiude perché “Ora mi sembra di scrivere su mia madre per, a mia volta, metterla al mondo“. Con le parole racconta la vita e la fine di quella stessa vita, cercando di definire i contorni e le burrasche emotive di questa assenza.
Le sue parole danno vita alla madre e, allo stesso tempo, rendono reale la sua morte, poiché la testimoniano e la raccontano.
Tutto questo in uno stile asciutto. Mai una parola di troppo, mai una parola che non sia chirurgica, mai una parola che si presti ad interpretazioni.
Alla Ernaux riesce bene far esplodere lentamente e in profondità i movimenti interiori, descrivendo situazioni semplici, con parole semplici, ma potenti ed evocative.

Mi sono ritrovata diverse volte, durante la lettura di questo libro, a domandarmi come sia possibile essere così efficaci nel trasmettere intenzioni ed emozioni, a dare il senso della vertigine come solo può darlo parlare della morte della propria madre e, allo stesso tempo, farlo in modo così tagliente, con parole nude, lisce.
La madre di Annie Ernaux morì esattamente una settimana prima di Simone De Beauvoir, una delle scrittrici regine della letteratura moderna francese, che nei suoi testi ha indagato a fondo il tema della memoria, dello stare al mondo in quanto donna, della scrittura come strumento di autodeterminazione e di descrizione della realtà.
Mi piace pensare che l’autrice indichi, con due righe buttate lì quasi per caso, la sincronicità di questi due eventi come non casuale ai suoi occhi; ossia come la congiuntura temporale che vede il termine dell’esistenza di due madri, una biologica e l’altra letteraria, una dispensatrice di vita, l’altra dispensatrice di parole, che danno la vita anche a ciò che non c’è più.

Alida Melacarne

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