“Ohio”: la discesa agli inferi dei giovani americani nello splendido romanzo d’esordio di Stephen Markley

Non aveva previsto che sarebbero diventati vecchi o malati o tristi o sarebbero morti. Non aveva mai pensato che avrebbero avuto paura”.
È tutto qui il nocciolo attorno al quale si dipanano le 536 pagine di “Ohio”, edito da Einaudi, esordio narrativo di Stephen Markley, autore statunitense, un ragazzone alto e massiccio, dagli occhi trasparenti.

Siamo in Ohio, un luogo fermo, che funge da culla e detonatore all’intera vicenda, un luogo da cui scappare, per poi tornare a farci i conti. L’immobilità di New Canaan, cittadina dell’Ohio che non esiste nella realtà, ma che ci si ritrova a cercare su Google Maps per come ci viene raccontata, come fosse una serie di fotografie di Robert Frank a colori, si anima attraverso i movimenti della luce incontrollata, dal sapore lisergico, che la illumina e la abbaglia, del buio che la fa sprofondare nell’abisso, della pioggia violenta che si abbatte sui segreti e sul passato, delle stelle che brillano troppo forte, come sanno solo brillare in certi angoli americani.
Ma i movimenti sono anche quelli interiori dei personaggi magistralmente descritti dall’autore. Si ritrovano adulti a fare i conti con quello che sono stati da adolescenti, quell’età in cui “erano stati giovani e basta, i litigi non duravano, i peccati erano scevri di qualsiasi tipo di cattiveria”, quell’età dell’innocenza che tanto innocente non è, in cui la popolarità è “un frutto succoso e scivoloso”, pericoloso da assaggiare.
Eppure è proprio negli anni della giovinezza che sono stati piantati i semi del destino di questi uomini e donne: c’è chi è andato in Iraq e ha perso la vita e i suoi muscoli creatinici assieme ai valori patriottici; chi ci è andato, sempre Iraq, ed è tornato con un occhio di vetro, finto, ma esatto come un radar nell’osservare; chi ha individuato e sperato nell’alcool e nella droga un terreno morbido su cui atterrare; chi ha cercato di vivere la propria omosessualità e la propria femminilità senza lo strazio e la paura di qualcuno pronto a strapparle i capezzoli per rabbia furibonda; chi ha fatto quello che ha fatto perché le avevano fatto quello che le avevano fatto, ossia il riscatto amaro dall’amore “che ti fa fare cose impreviste”, che rende “deboli da impazzire” fino a confondere, quello stesso amore, con la violenza; chi è scappato, scomparso, forse.

La questione è la solita, eterna: diventare adulti ed essere scaraventati nella verità, che è dura, così dura da aver voglia di cavarsi gli occhi e scoprire con delusione angelica e amara che “le cose non vanno mai come credi, tantomeno come desideri”.
E tutti i personaggi compiono un unico movimento, difficile e pesante, ossia quello del viaggiare indietro nel tempo, con la memoria, recuperare le intenzioni buone di quei peccati indicibili, creando una coreografia che urla dolore, vendetta, desiderio di essere amati ancora, per sempre.
Accanto ai protagonisti umani ce n’è un altro, totemico: è l’11 settembre. La narrazione al presente è lontana da quel giorno del 2001, ma è proprio la lontananza temporale a rendere quell’evento una specie di ombra lunga, di filtro, di giro di boa nelle vite di questi ragazzi. L’evento terroristico, televisivo, ossessivo nelle immagini è masticato e sedimentato negli anni ed è soprattutto quel momento della Storia che fa cambiare rotta alle piccole storie umane. Segna una cesura nei loro sogni di piccoli americani che avevano voglia di mangiarsi il mondo e che si ritrovano, invece, come “lucciole imprigionate in un barattolo”, a sbattere ostinatamente contro il vetro trasparente e a sognare di fuggire via.

Riemergere da queste 536 pagine non è facile.
La sensazione è quella di una specie di discesa agli inferi, ma l’autore è di una bravura strabiliante nel prendere per mano il lettore, a buttarlo nella scena fin dalle prime pagine e portarlo con sé, dove vuole lui, seminando continuamente indizi, utilizzando all’inizio la prima persona plurale, come se la scrittura e la narrazione fossero una cosa che coinvolge anche chi legge.
Il lettore stesso, infatti, diventa parte attiva poiché ci si ritrova a cercarli quegli indizi nelle pagine già lette. Del resto è lo stesso Markley che insinua il dubbio che “i narratori dimenticano sempre qualche passaggio fondamentale quando gli conviene”; sì, per tenere il lettore col naso attaccato alle pagine, senza tregua alcuna, fino alla comprensione totale della trama, che è fitta e seducente. E il libro stesso è pieno di dichiarazioni di scrittura, intesa come strettamente legata alla memoria di quei momenti precisi della vita che diventano i nuclei della conversazione narrativa, la quale elabora quei momenti intimi e personali in sconfinamenti mentali, che vanno oltre la durata della nostra vita.

Il romanzo è anche una capsula pop del tempo, con i riferimenti ai film (Casablanca, La Cosa), alla musica (Steal, Korn, Alanis Morissette, Backstreet Boys), ai fumetti (Watchman, Calvin&Hobbies), alle serie tv (Breaking Bad), ai libri (Gaia, Cime Tempestose, Lolita, Delitto e Castigo).
Ohio è un romanzo superbo nelle immagini e nello stile, pieno di colori accecanti e densi, sia nella luce che nel buio, e di metafore visive, cinematografiche. È un romanzo americano nelle tematiche, nelle descrizioni, nel tentativo di far esplodere il significato della Vita e della Storia nelle vite e nelle storie di gente di provincia. “Nessuno vuole credere che la violenza oscura e terribile può nascere o abbattersi sulle persone normali, annoiate”.
Dopo aver letto questo romanzo, questa finzione della realtà, ci crederemo.
L’unica redenzione per i protagonisti saranno i nostri occhi velati, il nostro cuore stretto in una morsa, i loro nomi che ci gireranno in testa per giorni e il desiderio di raggiungerli nell’unico posto possibile, per poterli guardare negli occhi: in Ohio.

Alida Melacarne

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