Al Locus 2019, Lauryn Hill sconfigge anche la tecnologia

Chissà se, per gli eruditi che nominano le generazioni, io (essendo del 1985) ricada nella generazione X o nei millenials, ma credo importi poco.
Più importante invece è avere qualche ricordo dell’inizio dell’era digitale, gli anni ’90.
Tra i vari, vivido è il ricordo di un album che raggiunse un pubblico molto più vasto di quello affezionato ai generi musicali da cui trasse ispirazione: The Miseducation of Lauryn Hill. Un tripudio di soul, hip-hop, r’n’b con accenti reggae. Un incredibile tributo alla black music, nella sua accezione più varia.
E come non ricordare poi quella performance per MTV Unplugged, dove il set acustico (appunto “unplugged”) dava ancora più risalto a quella voce meravigliosa, a quell’energia incontenibile.
Poi Lauryn scomparve, dopo un solo album solista. Tanti problemi seguirono forse anche per l’abbaglio di un successo clamoroso ed immediato. La relazione con Rohan Marley, uno dei -tanti- figli della leggenda Bob, e i cinque figli probabilmente influenzarono la scelta del ritiro prematuro dalla scena. Mi piace pensare però che questo, forse, la salvò da quel meccanismo perverso dell’industria musicale, che spreme gli artisti affinché mantengano il “business as usual” piuttosto che creare arte.
E più di 20 anni dopo ce lo ricorda lei stessa, rivendicando di aver messo tutta se stessa in quell’album e di avere una grande fiducia nell’universo (qualsiasi cosa voglia significare).
Il concerto del Locus, il Festival che si tiene annualmente nella suggestiva cornice di Locorotondo (con una line-up di altissimo livello quest’anno), inizia con poco ritardo davanti a qualche migliaio di fans di ogni età, dopo un ottimo warm-up dj-set. Rimango un po’ stupito dalla scelta di iniziare con Lost Ones; sia perché i primi brani di un live sono sempre occasione di continui ritocchi della fonica, sia perché il riarrangiamento per dare una sonorità contemporanea non ha reso onore all’originale. La performance prosegue e Lauryn e la sua band prendono via via più confidenza con il contesto, tenendo il pubblico felicemente in movimento. Le proiezioni su schermo (vjing per I più giovani) catturano l’attenzione, spece quando rendono tributo a varie leggende della musica.
Poi succede quello che non dovrebbe mai succedere a livelli così alti: salta l’amplificazione. Il monitoraggio sul palco e le luci in realtà continuano a funzionare. I musicisti si accorgono però del drastico cambiamento e abbandonano il palco su invito del tour manager. Tra il pubblico regna l’ incredulità e una terribile sensazione inizia ad aleggiare: è finita qui, non torneranno sul palco. Si sa che artisti di quel livello tendono a ‘tirarsela’ ed era perciò legittimo immaginare che il concerto finisse lì, una mezz’ora scarsa dopo l’inizio. L’occasione si fa ghiotta per ricaricare il drink e scambiare una chiacchiera coll’amico vicino. A dir il vero per far ciò non servirebbe una pausa così drastica, soprattutto con un publico abituato ad intendere gli eventi come ‘piano bar’ piuttosto che performance da seguire attentamente.
Quando l’atmosfera sembrava portarci verso una fine del concerto molto deludente, eccoli riapparire sul palco e ricominciare a suonare. E molto, molto meglio di prima. Certo la voce ha perso un pò di timbro e dinamica, come inevitabile dopo tanti anni; Lauryn deve sovente affidarsi all’aiuto del coro, rigorosamente e giustamente black, per quei passaggi più impegnativi per le corde vocali. La sua energia tuttavia sembra incontenibile e la band segue a dovere senza mai sovrapporsi alla melodia vocale. Si susseguono I grandi classici come ‘Everything is everything’, ‘Doo Wop’, ‘Ex-factor’ e ‘To Zion’ e non manca il tributo ai Fugees con ‘Killing me softly’.
Si poteva chiedere di più?
Non credo e dunque ‘Thank you Ms Lauryn Hill’.

Andrea Muciaccia

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