
Con tre serate in cui si sono esibiti Francesco Renga, Alex Britti e Cristiano De Andrè, si è svolta a Capurso la XXIII edizione del Multiculturita Summer Festival, caratterizzata da musica d’autore con l’obiettivo di offrire un’esperienza culturale e musicale di qualità, valorizzando il territorio.
Anche quest’anno ho avuto la possibilità di vivere serate all’insegna della bella musica e di poter riflettere su temi che ci riguardano tutti come la pace, la guerra, l’amore, la delusione, la vita insomma. Sì, perché lì dove finiscono le parole inizia la musica, lei che, sola, riesce a creare una grande magia e a farci sognare, mettendo in comunicazione le anime che si nutrono di sensazioni, sentimenti che diventano emozioni. E come non emozionarsi difronte alla maestosità della Reale Basilica di Maria S.S. del Pozzo che, nella sua sobrietà e nel suo candido colore bianco, conserva sempre il suo fascino: imponente e regale accoglie sul suo Sagrato un enorme palco dal colore nero, quasi a creare un effetto di chiaro scuro, il classico contrasto tra sacro e profano, un palco che si arricchisce, pian piano che la serata prende vita, di grandi occhi dai colori cangianti che, puntati su di te, sembrano prepotentemente scrutarti e accoglierti, mentre lei sovrasta, silenziosa e vigile, sulla tua coscienza. Il Sagrato è pronto ad accogliere la gente che pian piano prende posto e così le file si riempiono di spettatori di ogni età: più generazioni unite dallo stesso file rouge: la musica, il più potente strumento di comunicazione, unico, universale, eterno.

Con un cartellone sempre più ricco di qualità, dopo il successo del concerto di Francesco Renga, ecco che la gente si pone in ascolto per Alex Britti che, appena salito sul palco, provoca un’esplosione di applausi, sorrisi e urla di gioia. Comincia subito cantando, senza perdersi in parole perché “non voglio sottrarre tempo alla musica”, dirà più tardi, proponendo un concerto costruito esattamente come la tracklist dei più grandi successi accompagnati da qualche chicca meno conosciuta del suo repertorio, il tutto incorniciato da un continuo cambio di chitarre.

L’inizio spiega già cosa attendersi dal cantautore romano: lui appare solo e spara subito “Gelido”, uno dei primi successi di Alex, uscito subito dopo il boom di “Solo una volta (o tutta la vita)”, a cui segue “Una parola differente” e “Buona fortuna”. Poche chiacchiere, tanta musica. Prende così il via una serata di suoni ed emozioni spaziando tra blues, pop, rock e funk. D’incanto le note della sua chitarra riempiono l’anima degli spettatori, tutto diventa blues, magia, ritmo, colore, profumo del profondo sud, dove le canzoni diventano anima e le corde della chitarra passione purissima. Il concerto si snoda con ritmo e gioia e l’anima del cantautore riempie gli spazi e la sua chitarra inchioda il pubblico. E’ l’antipasto di un momento in cui Britti spara alcune delle sue cartucce più forti, come “Piove”, “La vasca”,intervallati da canzoni poco conosciute, come “Nuda”, canzoni che parlano ad ognuno di noi perché rappresentano sentimenti universali come quello di un legame profondo e raro che va oltre le difficoltà e le delusioni della vita “Non ho mai detto di essere perfetto, se vuoi ti aiuto io a scoprire ogni mio difetto. Se ne trovi di più ancora mi sta bene, basta che restiamo ancora insieme…accettami e vedrai insieme cresceremo” (Una su un milione); o quella voglia di libertà e di evasione dalla routine quotidiana, di pirandelliana memoria, che si cela in ognuno di noi dove lo zingaro diventa un simbolo di libertà, fuori da vincoli e convenzioni sociali ”La sua timidezza è l’arma sua migliore, Un sorriso per nascondersi e gli occhi per parlare, C’è uno zingaro felice che si sveglia ogni mattina, Con la voglia di partire e con la testa sulla luna”(Lo zingaro felice); o, ancora, la difficoltà di crescere, l’incertezza del futuro e la nostalgia del passato, temi che risuonano profondamente con l’esperienza di chi si trova a un bivio della vita, a un momento di transizione nella speranza che è sempre possibile cambiare e trovare la propria strada, anche in età adulta “E’ difficile accettare avventure già vissute, Ma infondo questa vita è piena di sorprese, Quei ricordi ormai sbiaditi…, Come se nulla fosse ti tornano tra i denti…è difficile cambiare…,Come il cielo all’improvviso, Come il buio in un sorriso, Noi cerchiamo una risposta, Ma poi quando la troviamo; Scappiamo via; Come il cielo del mattino e lo sguardo di un bambino, Adulti di nascosto, ma che forse adulti non saremo mai” (Immaturi). Si assiste così a un live in grado di far emergere la duttilità di un musicista che, nella sua lunga e importante carriera, ha saputo attraversare diversi generi mantenendo sempre la stessa efficacia e qualità, dal cantautorato tradizionale a quello più sperimentale, dal pop alle atmosfere rarefatte degli ultimi lavori come “Supereroi” che qui, insieme alle suggestioni gospel di “Tutti come te” e ai virtuosismi di “Jazz”, ha il compito di aprire ad un gran finale.

Britti si tiene infatti per la chiusura del concerto quella “Oggi sono io” con cui ha vinto Sanremo nel 1999 tra i giovani e che è universalmente considerata come una delle canzoni d’amore più belle della storia della musica italiana, “7000 caffè” con cui, quattro anni dopo, sempre a Sanremo, è arrivato secondo mantenendo però anche una longevità che l’ha fatta poi diventare il tormentone dell’estate successiva, “Baciami (e portami a ballare)”, arrivata ai primi posti dell’airplay radiofonico. A dimostrazione di un artista che ha saputo realizzare tormentoni in ben tre decenni diversi.
Il cantautore porta sul palco tutta la sua urgenza di suonare, il suo bisogno di comunicare attraverso la propria proposta musicale, la sua passione per la chitarra. Un amore viscerale nei confronti delle sei corde, emblema di un sacro fuoco mai spento. L’impressione è quella di assistere ad uno spettacolo che prende man mano forma sul palco grazie ai tanti momenti dedicati proprio alla chitarra, tra improvvisazione e assoli che rendono il live ancora più curioso e coinvolgente, ma anche canzoni completamente stravolte e riarrangiate (“7000 caffè”, ad esempio, arriva a durare quasi dieci minuti); Alex Britti è uno che con la chitarra ci sa veramente fare, la coccola, la mangia, la corteggia e seduce il pubblico, accompagnato da una band di altissimo livello di cui ogni musicista ha avuto il suo spazio per mettere in mostra il proprio talento.

Prima di salutare Britti ringrazia la band, le coriste, li applaude, scatta una foto con il suo affezionato pubblico, poi cala il sipario. Nessun bis, perché è troppo pop e a Britti così non piace.
Ogni persona dovrebbe regalarsi un concerto di Alex Britti perché è uno di quei concerti che riconcilia con la musica suonata in un periodo in cui ce n’è veramente poca; con la sua inconfondibile voce e la sua maestria con la chitarra ha saputo creare un’atmosfera magica, capace di coinvolgere il pubblico presente dando vita ad un’atmosfera di festa e complicità.

Ma è con Cristiano De Andrè che sembra di toccare l’apice della musica italiana, di quella musica impegnata capace di raggiungere corde profonde, creare atmosfere uniche e coinvolgenti, dove le parole e le note si fondono in un’esperienza unica dando spazio a tutto un patrimonio di riflessioni, valori e ideali intramontabili, occupandosi di temi attuali: dalla denuncia della guerra al carcere, dall’ipocrisia piccolo-borghese alla prostituzione, dalla droga ai drammi delle maggioranze e minoranze, dagli zingari ai popoli nativi, fino all’omo/trans-sessualità.

Con “De Andrè canta De Andrè” sale sul palco Cristiano per raccontare, reinterpretare e, in qualche modo, abitare le canzoni del padre, Fabrizio De Andrè: un vero atto d’amore, un rito collettivo di rievocazione poetica. E’ impressionante il numero di strumenti che vengono collocati sul palco restando in attesa di sprigionare la magia della serata e che preannunciano un concerto mozzafiato che, di certo, non deluderà le aspettative. Polistrumentista, il cantautore genovese incanta il pubblico imbracciando la chitarra acustica e classica, il bouzouki, il pianoforte e perfino il violino, dando corpo e anima a un repertorio che è ormai parte integrante della nostra memoria culturale. Ad accompagnarlo una band di altissimo livello: Osvaldo Di Dio alle chitarre, Davide Pezzin al basso, Luciano Luisi alle tastiere, Ivano Zanotti alla batteria. Gli arrangiamenti, firmati dallo steso Cristiano insieme a Luisi e Osvaldo, restano profondamente coerenti con lo spirito originario delle opere di Faber: un equilibrio tra fedeltà e rinnovamento. Grazie alla grande attualità dei testi “Gillo” (come lo chiamava suo padre) si focalizza subito sul tema della guerra affermando “Ho scelto canzoni contro la guerra, ma anche sulla guerra contro noi stessi e sulle cose che ci siamo persi in questi anni. Di mio padre voglio tramandare la grande coerenza, un appiglio per i ragazzi in questo buio esistenziale”.

Le luci puntate sugli spettatori sembrano per un momento chiedere loro di non vedere con gli occhi, ma col cuore, quello che si apprestano a vivere. Il concerto si apre con “Mègu Megùn”, una delle più intense e grottesche incursioni di Fabrizio De André nell’animo umano. Cantata in genovese, la canzone mette in scena il monologo ossessivo di un malato immaginario che rifiuta la guarigione per paura del mondo esterno, popolato da gente invadente, sporca, minacciosa. Dopo “Â Cìmma”, piatto tipico genovese, Cristiano si rivolge al pubblico: «Siamo ancora qui, in un viaggio nella musica e nella poesia di mio padre. Quest’anno cade anche il 26° della sua scomparsa. Credo sia un dovere di figlio continuare a cantare le sue canzoni per dare l’opportunità a chi non ha potuto assistere a un suo concerto di ascoltarle dal vivo, non da lui, ma da un parente stretto. Sono opere che raccontano un pezzo di storia del Paese, e questo The Best Of Tour racchiude il meglio degli ultimi quattro album dal vivo, De André canta De André. C’è un filo rosso che lega tutte le canzoni di mio padre, dalla prima all’ultima, ed è sicuramente la coerenza, l’ansia di giustizia, il punto di vista di chi si è sempre schierato dalla parte degli ultimi, degli indifesi. Lui era veramente convinto che ci fosse un modo di vivere senza dolore e ci ha insegnato che non ci sono “poco di buono”, che solo l’amore, la compassione e il riconoscersi nel più debole possano salvare l’uomo e, di conseguenza, il mondo». Maturo, riflessivo, pacato, alterna parole a note, e lentamente appare evidente il percorso del concerto e del tributo al padre che il figlio ha deciso di incidere: una scaletta e una tracklist, impregnate di impegno sociale, di canzoni di denuncia.

Tra i brani più toccanti della serata, “Ho visto Nina volare”, con il celebre verso: “Mastica e sputa, da una parte il miele, mastica e sputa, dall’altra la cera”. Una citazione poetica e concreta al tempo stesso, ispirata a un’antica pratica dell’apicoltura lucana osservata da De André e Fossati nel Materano. Arriva “Don Raffaè”, uno dei brani più popolari di De André, una sorta di fucilata contro uno Stato corrotto e assente, con un grottesco ribaltamento dei ruoli tra legalità e criminalità. Attraverso l’ironia e il dialetto maccheronico, De André dipinge uno Stato da galera e una camorra che diventa istituzione parallela, ispirata a Raffaele Cutolo: “Ventuno ingiustizie e lo stato che fa, Si costerna, S’indigna, S’impegna, Poi getta la spugna con gran dignità…Io chiedo consenso a don Raffaè…”. Altro momento altissimo è stato “Se ti tagliassero a pezzetti” dove l’amore per la libertà si traveste da amore carnale, e la strage di Bologna del 1980 fa da sfondo crudo e doloroso. La canzone ha assunto una forza quasi viscerale, amplificata da un arrangiamento energico anni Ottanta, che ha avvolto la platea in un silenzio riverente.

“Smisurata preghiera”, ultimo brano dell’album Anime Salve, ispirata alla poesia di Álvaro Mutis, è apparsa come una sorta di preghiera laica, una liturgia solenne per i viaggiatori ostinati e contrari, gli emarginati, i ribelli “…Sullo scandalo metallico di armi in uso e in disuso, A guidare la colonna di dolore e di fumo, Che lascia infinite battaglie al calar della sera, La maggioranza sta”. La voce di Cristiano, qui, ha raggiunto vette di struggente lirismo, come anche in “Verranno a chiederti del nostro amore”, che ha toccato corde intime e delicate. Considerata una delle più belle canzoni d’amore mai scritte da De André, tratta da Storia di un impiegato (1973), l‘impiegato, dopo aver fallito un attentato ed essere stato arrestato, scrive a sua moglie una lettera dal carcere nel quale è rinchiuso, in cui sembra chiederle di non sacrificare il loro amore tutto in una volta, pur consapevole che gli sciacalli mediatici arriveranno “in anticipo sul tuo stupore”, cioè prima che lei se ne accorga: “Non spalancare le labbra in un ingorgo di parole, le tue labbra così frenate nelle fantasie dell’amore”. Altre due canzoni dall’album Storia di un impiegato, le cui musiche sono state scritte da Faber insieme a Nicola Piovani “Canzone del padre” e “Nella mia ora di libertà“. Segue “Amico fragile”, con venature rock progressive che ne amplificano l’intensità emotiva: è una confessione ubriaca e lucidissima, nata da una notte di disillusione e rabbia. De André scava nelle ipocrisie sociali e personali con sarcasmo tagliente, oscillando tra distacco e intimità, tra condanna e autocritica. È il canto di chi sceglie di non fingere, anche a costo della solitudine: un inno fragile e feroce alla libertà di essere, anche nella sconfitta.

Cristiano ha saputo alternare con disinvoltura intensità e leggerezza, come nel caso della “Canzone di Marinella” e di “Bocca di Rosa”, dove la narrazione si fa mito e satira sociale allo stesso tempo. “Bocca di Rosa” è un inno all’amore libero, un’irriverente ballata che sfida l’ipocrisia di provincia con ironia e poesia. De André canta la storia di una donna che non si vende, ma ama per passione, scandalizzando le ‘comari’ e tirandosi addosso “l’ira funesta delle cagnette a cui aveva sottratto l’osso” e cambiando, con il solo potere del desiderio, la mentalità di un paese. Un personaggio reale, Maritza, che diventa leggenda, trova l’indirizzo di Fabrizio su un giornale di musica e si presenta a casa sua perché voleva togliersi la voglia. E in questo racconto tra sacro e profano, Fabrizio si ritrova profondamente: è la canzone che più mi somiglia. “L’amore va posto al di sopra di ogni cosa-sentenzia Cristiano dal palco – ma oggi il mondo va al contrario” e chiede al pubblico di scambiarsi non un segno di pace ma un cinque di pace, creandosi così, idealmente, una sinergia incredibile in pochi istanti per quella che lui definisce una “messa laica”.

Ma ecco quella canzone che tutti cantano senza neanche omettere una sillaba, “La canzone di Marinella”, capolavoro assoluto, ispirato a un fatto di cronaca nera che Faber lesse su un giornale quando era ragazzo. La canzone racconta la storia di Marinella, una giovane donna morta in circostanze tragiche e ritrovata in un fiume. De Andrè trasforma questa vicenda in una poesia, celebrando la bellezza effimera della vita e dell’amore, paragonando Marinella a una rosa che sboccia e sfiorisce in un solo giorno: “…E come le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose”. Nonostante la morte, Marinella viene ricordata per la sua capacità di amare e vivere intensamente, incarnando la forza dell’amore e la sua potenza trasformatrice. “Disamistade, Andrea, La cattiva strada”. Il pathos tocca il culmine con “Il testamento di Tito” che Cristiano canta con una forza quasi profetica, in cui rende omaggio a suo padre, modificando in modo minimo, ma significativo, il verso sulla morte del padre, cantando “…quando a mio padre si fermò il cuore ho provato dolore” e con “Un giudice”, dove l’interpretazione tagliente ha restituito tutta la violenza simbolica e grottesca del brano che racconta di un uomo che, per utilizzare un termine moderno, veniva costantemente “bullizzato” per via della sua statura e per il suo aspetto fisico. La canzone narra anche di come, oltre ad essere preso in giro, il nano suscitasse anche la curiosità delle donne, per via di quella credenza secondo cui i nani sarebbero più “dotati”. Covando odio per l’altrettanto odio ricevuto, non appena divenne giudice, il nano si vendicò, scatenando tutte le sue frustrazioni “E allora la mia statura non dispensò più buonumore. A chi alla sbarra in piedi mi diceva “Vostro Onore” e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, non conoscendo affatto la statura di Dio”. E noi? Oggi, soprattutto con l’avvento di Internet e dei social, tutti noi ci siamo trasformati in giudici, né più né meno come il grottesco personaggio di Faber.

Poi “La collina”, “Volta la carta”, “Quello che non ho”, “Fiume Sand Creek”: per ogni canzone ci sarebbero fiumi e fiumi di spiegazioni e significati, gli stessi che Fabrizio De Andrè ha lasciato durante le interviste, nei vari libri e negli aneddoti, alcuni raccontati da Cristiano stesso sul palco. Siamo quasi in chiusura a circa due ore di spettacolo, Cristiano invita il pubblico sotto al palco per i bis, e la platea si trasforma in un coro unanime per il “Pescatore” e strappa un lunghissimo applauso. Poi con estrema dolcezza, si siede al pianoforte verticale e chiude con “La canzone dell’amore perduto”, in un silenzio che sembra sospendere il tempo. Il pubblico è in delirio, una marea di applausi, tutti, giovanissimi e coetanei di Cristiano, o di suo padre, a ringraziare per una serata emozionante. Note precise e di gran gusto attorno alla linea melodica dei brani e alla voce profonda, arrochita dagli anni, hanno creato atmosfere di intensa suggestione.

Cosa aggiungere? Al di là di osannare la sua grande perizia strumentista, bisogna affermare che è apparso in gran spolvero con la voce, sempre più bella, sempre più sicura e personale. Alla fine c’è stato un tripudio che ha coinvolto tutto il pubblico che non se ne sarebbe più andato, dimostrando a Cristiano De Andrè un affetto e il riconoscimento di un valore intrinseco che travalica la sua genia. “Gli artisti sono personaggi difficili ma non cattivi”, questa è stata la sua chiosa parlando del rapporto difficile tra padri e figli che stanno nell’arte e inserendo aneddoti curiosi sul suo rapporto con il padre. Essere De Andrè non è facile, non lo è stato per Fabrizio e non lo è nemmeno per Cristiano. Si tratta di coltivare una terra dura e asciutta, una crosta secca e difficile da penetrare, ma brulla e fertile sotto la superficie. E’ una terra che va arata ancora con il vomero e buoi e che ad ogni passo fa piegare sempre più la schiena sotto il peso dei solchi precedenti. Per alcuni vedere spuntare un germoglio vale comunque ogni fatica e uno di questi è Cristiano De Andrè.
Flora Guastamacchia
Foto di Mimmo Pellicola e Flora Guastamacchia