
Due sere fa ero di nuovo lì, davanti a San Siro, e ancora una volta facevo fatica a crederci. Mi ero concesso 36 ore di libertà, di quelle che diventano un regalo raro alla mia età, e mentre guardavo il palazzo Generali con quell’insegna penzolante a pochi passi dallo stadio, pensavo che in fondo anche noi fan siamo un po’ così: sospesi, in bilico, ma sempre pronti a rimetterci in gioco quando Bruce sale sul palco.
Era l’undicesimo concerto di Bruce Springsteen a cui assistevo. Il primo, ormai 40 anni fa, sempre qui a Milano. Giugno 1985, io e mio fratello Antonio, due ragazzini che si sentivano invincibili solo a pronunciare il suo nome. Da allora sono cambiate tante cose, ma non l’emozione che mi scuote ogni volta che la sua voce roca si riversa sulla folla come un’ondata che ti travolge senza chiederti permesso.
C’erano le braccia che si agitavano, i cori che partivano spontanei, quell’energia che non riesci a spiegare a chi non c’era. Ha quasi 76 anni e sembra che per lui il tempo si sia fermato. Ha dato tutto, come sempre. E la E Street Band non è mai stata solo un contorno: è un pezzo di storia. Little Steven, stoico, presente nonostante un’operazione subita appena due settimane fa. Di band come questa ne esiste una sola: il resto, francamente, sono patetici tentativi di scimmiottarli, copie sbiadite buone per riempire qualche playlist di nostalgici.
Quando Bruce è sceso dal palco per stringere le mani a chi era in prima fila, ho pensato che un tempo sarei stato anch’io lì sotto, a sfiorare il suo braccio. Stavolta non ce l’ho fatta, ma va bene così. Ho lasciato che fossero i miei figli a viverlo da vicino. Erano felici, con le magliette nuove e la birra in mano. Vederli ballare e cantare mi ha fatto capire che certi riti passano di generazione in generazione.
E poi le canzoni, una dopo l’altra, senza una pausa, come se il concerto non dovesse finire mai: No Surrender, My Love Will Not Let You Down, Atlantic City, Land of Hope and Dreams. Ogni brano un pezzo della mia vita. Ogni verso un richiamo a qualcosa che credevo di aver dimenticato. L’adrenalina a mille, la scaletta che filava senza respiro, i tributi a Dylan, le immagini di Clemons che scorrevano sugli schermi come a dire che certi compagni non se ne vanno mai davvero.
In quel mare di 150.000 persone che hanno riempito San Siro in due sere, mi sono sentito parte di qualcosa di più grande. Bruce che ti parla di democrazia, che denuncia Trump con la stessa rabbia e lucidità di un ragazzo, e sembra chiederti di non mollare, di fare la tua parte. Lui è l’America che ha ancora un senso, l’America che ti spiega perché a volte vale la pena credere in un sogno.
E soprattutto, Bruce ti ricorda che assistere a un suo concerto non ha nulla a che vedere con certi pseudo rockettari di oggi, quelli che riempiono sì e no cinque stadi in estate, “pronipoti di sua maestà il denaro”, per dirla alla Battiato, e che “siamo sommersi soprattutto da immondizie musicali”.
Quando è partita Dancing in the Dark, ho abbracciato i miei figli e ho cantato come un ragazzino. Poi Born to Run, Bobby Jean, e la voce che si spegneva per la fatica e l’emozione.
E mentre uscivo dallo stadio, un velo di malinconia mi si è posato addosso. Ho alzato lo sguardo verso quelle luci che da sempre illuminano San Siro e mi è venuto da pensare che le luci a San Siro non le puoi spegnere, perché certe notti restano scolpite dentro e non c’è tempo che possa cancellarle.
Lo so che tornerò nel mio mondo fatto di cose semplici e di rinunce, ma so anche che per tre ore ho vissuto di nuovo a colori.
Forse ieri sera ho visto Bruce affrontare l’ennesimo esame della sua lunga carriera, e ancora una volta ha dato la prova di essere unico. Un eterno ragazzo con la chitarra, l’armonica e la sua voce consumata che non smette di scuotere le coscienze.
Grazie Boss, perché anche stavolta mi hai fatto piangere. Un concerto che non dimenticherò mai perchè uguale e diverso da tutti gli altri, con l’unica differenza della carta di identità che non concede, ahimé, scampo. E se davvero questa fosse stata l’ultima volta in Italia, allora sono felice di esserci stato.
Cadetto di Guascogna