La settimana sportiva: l’analisi di Bari – Modena

Dal 25 aprile a quello che sogniamo: Bari ancora ostaggio della multiproprietà

Venerdì era il 25 aprile, Festa della Liberazione. Una data sacra, emblema di rinascita e dignità riconquistata. E chissà, forse i tifosi avrebbero fatto meglio ad abbandonare gli spalti e partecipare a qualche corteo, a cantare la libertà con chi ricorda il vero senso di quella giornata, piuttosto che assistere all’ennesima replica dell’impotenza biancorossa.

Già, perché a Bari la Liberazione deve ancora arrivare. Sarà festa grande solo quando finalmente ci saremo liberati della multiproprietà. Non dei De Laurentiis in sé – perché bisogna ammetterlo, con l’industria calcio ci sanno anche fare – ma di questo vincolo strutturale che ci condanna ad anni di oscurantismo calcistico. Come scrisse Ignazio Silone, “la libertà non è un diritto: è un dovere”. Ed è un dovere, oggi più che mai, liberare il Bari da una condizione che lo costringe a vivere di espedienti, sogni a metà e obiettivi al ribasso.

Il Bari, con questa gestione, non sarà mai protagonista vero in Serie B. E Bari, città fiera e passionale, merita altro: merita di lottare per la promozione diretta, non di accontentarsi delle briciole di un ottavo posto, magari agguantato per il rotto della cuffia.

Invece, tutto secondo copione. E per chi ha i capelli bianchi come me, non c’era nemmeno bisogno di consultare la legge di Murphy: bastava l’esperienza. Quando a Bari arrivano ospiti illustri, quando c’è da consegnare targhe per centenari, quando c’è da ricordare qualcuno, quando si invitano Protti, Tovalieri o Joao Paolo, o più banalmente quando c’è un evento importante nel Paese sia luttuoso, sia di festa da celebrare, la sconfitta è garantita. È una tradizione più solida di una colonna romana.

Il Modena, ordinato ma nulla più, ha avuto vita facile contro un Bari molle, svogliato, incapace di reagire ai primi due schiaffi subiti in un amen. Una disfatta figlia di errori marchiani: Maita sembrava l’ombra di se stesso, consegnando due assist involontari agli avversari e collezionando la quattordicesima ammonizione stagionale, roba da record, se solo ci fosse qualcosa da festeggiare. Obaretin e Vicari, poi, sembravano due turisti spaesati tra le rovine difensive, mentre Mantovani e tutto il centrocampo vagavano come anime perse nella nebbia.

Il Bari, in campo, sembrava una comparsa da film neorealista: trenta secondi di scena, forse meno, e poi via, lasciando il palcoscenico a chi sa davvero recitare. Altro che Totò, Anna Magnani o Vittorio Gassman, Nino Manfredi o Alberto Sordi: qui siamo ai livelli dei figuranti anonimi.

Longo ci ha provato con la solita girandola di cambi – Lella, Bonfanti, Favilli, Pereiro, Bellomo – ma l’effetto è stato quello di gettare secchiate d’acqua su un incendio già divampato. Pereiro, enigmatico come l’Isola di Pasqua, non salta un uomo da gennaio (posto che ne abbia mai saltato uno); Bonfanti ha dimenticato come si segna; Falletti alterna una partita buona a venticinque pessime. E Favilli? Povero Favilli, condannato a vivere la sua carriera nell’ombra delle occasioni sprecate.

Intanto il Modena, senza fare nulla di trascendentale, ha centrato il suo obiettivo: raggiungere il Bari e scavalcarlo negli scontri diretti. E la classifica? Il Bari, ufficialmente fuori dai playoff, comincia a guardarsi alle spalle. Altro che promozione: ora il vero traguardo si chiama salvezza, quella sì da racimolare punto su punto contro squadre disperate e affamate.

Longo, a fine gara, ha dichiarato che questa squadra è stata “sopravvalutata”. Una verità che suona come una sentenza, come quelle del Tribunale Speciale negli anni bui: poche parole, una condanna. Una rosa di cocci, cocci d’anfore rotte, come quelle che hanno generato il Monte Testaccio a Roma e che nessuno sa più ricomporre. L’entusiasmo? Sparito. Il “priscio”? Un ricordo sbiadito, come una vecchia foto in bianco e nero. E intanto i tifosi, che vorrebbero almeno un po’ di gioia, sono costretti a nutrirsi di solo veleno. Come nella celebre scena di Miseria e Nobiltà, quando Totò, rivolgendosi a Pasquale affamato che si lamentava per il cibo che scarseggiava, precisò: “In questa casa non si mangia pane e veleno, si mangia solo veleno”. Ecco, oggi tra la tifoseria non si assaggia neppure il pane: solo veleno, ad ogni morso di partita. 

La verità è che questa annata, se il Bari finirà tra il tredicesimo e il quattordicesimo posto, sarà quasi un successo. E se qualcuno si illude ancora nei playoff, meglio si svegli: le prossime gare saranno contro avversari affamati che venderanno cara la pelle per salvarsi. E noi? Noi ancora a contarci i cocci.

Ecco perché oggi non servono illusioni ma un atto di coraggio. Come scriveva Giuseppe Mazzini, “la grandezza non consiste nell’essere forti, ma nell’uso giusto della forza”. E la nostra forza, ora, deve essere nella volontà di dire basta: basta multiproprietà, basta a una gestione imposta da vincoli che soffocano l’ambizione di una città intera.

Sia chiaro: non ce l’abbiamo con i De Laurentiis, abili nell’industria calcio e capaci di portare risultati altrove.
Il vero nemico non sono loro, ma il concetto stesso di multiproprietà, incompatibile con la voglia di grandezza che Bari coltiva nel cuore da sempre.

Aspettiamo allora il nostro 25 aprile societario: il giorno in cui, finalmente liberi da queste catene invisibili, potremo riscrivere la nostra storia calcistica senza più compromessi.

E forse, proprio quel giorno, intoneremo anche noi una “Bella Ciao”, ma non come canto di rabbia o di addio, bensì come inno di liberazione. Di rinascita. Di futuro.

Massimo Longo

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