
La storiella del possesso palla ha oggettivamente stancato. Basta usarlo come alibi goffo e pretestuoso. Il Bari di quest’anno non è una squadra in difficoltà, è un malato grave, anzi, terminale. Nove rimonte subite, quattro pareggi in superiorità numerica: numeri che non mentono, numeri che condannano. A cosa serve la patina illusoria dei 30 punti in classifica se poi, nelle partite da vincere senza se e senza ma, si finisce sempre per dilapidare tutto con una leggerezza imperdonabile? Una volta può capitare, due volte è una disattenzione, tre è un problema. Ma nove? È una condanna.
E se siamo ancora in zona playoff è quasi un miracolo. La verità è che questa squadra sembra vivere in una realtà parallela, fatta di possesso palla sterile e di un’idea di calcio che si dissolve al primo refolo di vento. Ci ritroviamo a commentare l’ennesimo pareggio ottenuto su un campo di una squadra che, a parte l’azione del rigore, non ha mai impensierito Radunovic. Ma il Bari cosa ha fatto in più? Nulla. Ha palleggiato, ha mantenuto il solito, insopportabile possesso palla e non ha mai tirato in porta.
Eppure, dal 37’ del primo tempo il Bari ha giocato in superiorità numerica. Quanto sarebbe bastato a un Mantova, a un Cittadella, a una Reggiana per chiudere partite simili senza troppi fronzoli. E invece, puntualmente, la squadra si specchia nella sua inconsistenza e poi, come sempre, si fa rimontare. Una squadra senza spina dorsale, che continua a illudere, a dare l’idea di poter vincere, salvo poi rivelarsi l’eterna incompiuta, come la Gioconda mai finita di Leonardo da Vinci.
Dopo il bel gol firmato dalla catena Dorval-Obaretin-Favilli, servita su un piatto d’argento dall’espulsione avversaria, ecco il solito canovaccio: controllo, possesso palla, la cui aliquota che schizza al 68%, l’illusione di essere in controllo, quando in realtà è l’inerzia stessa della partita a scivolare dalle mani. E così, l’avversario moribondo prende coraggio e al primo guizzo raddrizza la barca. L’ennesima disfatta mascherata da pareggio.
E poi ci sono loro, quelli che dovrebbero fare la differenza e invece tirano indietro la gamba. Sibilli? Irritante, fastidioso, un ectoplasma in campo. A Pisa era una riserva, forse non per caso. Falletti? Doveva essere il valore aggiunto, è diventato un corpo estraneo. Lella? Stava tornando su livelli accettabili, sabato era l’unico capace ad inserirsi come sa fare lui, ma guarda caso si è infortunato. E Longo? Sì, è un tecnico di categoria, ma quando la tua squadra subisce nove rimonte in stagione, qualche domanda devi fartela. La squadra gioca, ma non uccide le partite. E in Serie B, se non chiudi, muori.
Il Bari è un club che non impara mai dai propri errori. “La storia insegna, ma non ha scolari”, diceva Antonio Gramsci. E i biancorossi continuano a ripetere sempre gli stessi, sistematici, imperdonabili sbagli. Possesso palla fine a sé stesso, zero cattiveria sotto porta, incapacità cronica di chiudere le partite. E la legge di Murphy è ormai un dogma: se qualcosa può andare storto, lo farà.
E La Gumina? Sembrava potesse vestire la maglia del Bari, invece è andato al Cesena e ci ha pure segnato. Un classico che accade solo al Bari. Il calcio, si dice, è imprevedibile. Ma non con il Bari. Qui è sempre la stessa storia, un loop infinito degno di Samuel Beckett. E la cosa più frustrante è che nessuno sembra in grado di cambiare il copione.
E il mercato? Non ci si aspetti nulla di che. È già tanto che sia arrivato Bonfanti. Scarpe rotte eppur bisogna andar. Con questi uomini e con qualche altro da rimettere in sesto dopo infortuni, stop prolungati o esclusioni forzate o, al massimo, con qualche giovanotto di serie C da fare crescere bene e valorizzare magari approntandolo per oltrepassare l’Irpinia ed arrivare a Posillipo, si deve continuare. La panchina? Inutile, anzi dannosa. Lo si è visto anche sabato.
Ci si conforta almeno con la bella prova di Favilli. Ma è una consolazione magra. Troppo magra per chi, in teoria, dovrebbe ambire a ben altro.
Massimo Longo