
“Il sogno degli albanesi è diventato la fuga e la costruzione della vita in Occidente.” (Fatos Lubonja)
“È il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal ‘rachi’, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. La colonna vertebrale è di ferro. La puoi utilizzare come ti pare. Se capita un guasto, ci si può sempre arrangiare. Il cuore, quanto a lui, può ingrassare, necrosarsi, può subire un infarto, una trombosi e non so cos’altro, ma tiene maestosamente. Siamo in Albania, qui non si scherza.” (Ornela Vorpsi)
Cosa può fare un giovane uomo albanese che si ritrova a dover guardare in faccia il proprio fallimento, la propria ormai irrisolvibile condizione di precarietà che lo ha portato finanche ad espatriare in una terra straniera dove, come sentenzia un proverbio popolare, “il giorno è lungo come un mese”? Povero cristo, non ha in fondo molte scelte: può continuare a sperare o cominciare a sparare. Ma se, nonostante insistenti istanze, nessuno ti ha dotato di un’arma, e la speranza, benché notoriamente fosse rimasto l’ultimo baluardo, è già morta da tempo, persa nell’incerto orizzonte di una Puglia invernale solitaria ed inospitale, allora che si può fare? Ci si pone davanti ad un altro definitivo bivio: tirare a campare al soldo di padroni senza scrupoli, in compagnia di altri poveri cristi, oppure tentare di riscattarsi e mutarsi da ricattato a ricattatore, da oppresso ad oppressore, da comparsa ad attore protagonista di una storia scritta per troppo tempo da altri, perpetuando un’idea di crimine tanto geniale quanto folle, pur sapendo che, con tutta probabilità, questo ti porterà ad immolarti, forse anche sino alla morte, sull’altare della rivolta, pur di testimoniare con la tua vita il preciso momento in cui la sofferenza si fa coscienza della condizione in cui sei relegato e quindi rabbia e collera, procurando un dolore talmente lancinante da non consentire vie d’uscita, da non riuscire a spegnersi se non in un definitivo urlo da lanciare al mondo nell’estremo tentativo di lasciare un – seppur negativo – segno, una traccia, un motivo per essere ricordato, nella consapevolezza che solo sollevando il capo si potrà tentare di migliorare il proprio futuro o di bruciarlo tutto in un solo istante.
“Ammazzare i morti”, la nuova pièce targata Compagnia Umberto Orsini tratta da un racconto dello scrittore tarantino Carlo D’Amicis che ha inaugurato l’ottimo cartellone annuale di “Trame Contemporanee”, il festival teatrale a cura della Compagnia Malalingua e con la direzione artistica di Marianna de Pinto e Marco Grossi che ormai è splendida realtà e fiore all’occhiello delle rassegne locali, al suo debutto nazionale per l’attentissima e preparatissima platea della Cittadella degli Artisti di Molfetta, in cui era celato più di un eminente addetto ai lavori, ha mostrato una forza propulsiva che non può in alcun modo circoscriversi meramente ad una – pur presente – pregevolissima quanto asettica analisi di scottanti tematiche comunitarie, ma riesce ad andare ben oltre, cosicché l’urgenza della palese denuncia sociale prende innegabilmente il sopravvento sullo spettatore, trascinato in un vortice senza fondo che, nonostante una ilarità – talvolta volutamente grossolana e più spesso calvinianamente leggera – che permea l’intera narrazione, lo soffoca stringendogli la gola in una morsa asfissiante, costringendolo a riflettere sulla contingente drammatica situazione umana collettiva attraverso il racconto della storia di un ragazzo fuggito da Tirana (che potrebbe essere sbarcato a Bari assieme agli altri 20.000 disperati dal mercantile Vlora in quel drammatico 8 agosto 1991), adattatosi a fare per pochi euro da sorvegliante ‘fuori stagione’ alle case al mare di un paesino del basso Salento alle dipendenze di un malavitoso padrone/sindaco assieme ad altri tre scarti della società di origine pugliese, sino a che non maturerà la malsana (in ogni senso) idea di disotterrare e sequestrare (il termine ‘rapire’ potrebbe apparire improprio) il cadavere della moglie del suo disonesto datore di lavoro a scopo ritorsivo e ricattatorio.
Al netto di qualche dettaglio ancora da registrare e di qualche angolo da smussare, più che comprensibile per una Prima, soprattutto riguardo l’empatia da crearsi con la sala, elemento fondamentale in uno spettacolo di tale portata, il merito della riuscita dell’operazione va senza dubbio ripartita tra la sapiente e chirurgica regia di Leonardo Capuano, Premio Ubu 2024 come migliore attore/performer per lo strabiliante ‘La ferocia‘, e l’ottima interpretazione di Giorgio Sales, straordinario attore che, all’occorrenza, sa trasformarsi in esperto dicitore di inflessioni dialettali pugliesi e dello slang albanese, mimo, ballerino, equilibrista e quant’altro; l’artista pugliese è eccellente nell’interpretare – talvolta anche in simultanea – tutti i protagonisti, senza trucchi e travestimenti, se si eccettua il cerone sul viso che lo rende impersonale, quasi un fantoccio nella mani di un destino più grande, restando per tutto lo spettacolo ‘nudo’ sul palcoscenico, utilizzando ogni espediente vocale e fisico per condurre il pubblico ad immedesimarsi nella parabola discendente sino agli inferi di sei personaggi in cerca di un Autore ben più alto che, però, pare guardare da un’altra parte e non occuparsi delle loro vite opache scandite da logori intercalari linguistici, da furti irrisolti, da progetti improbabili, in fondo tutti poveri cristi abbandonati sulla croce da un padre distratto (La Società? L’Umanità? Dio?), il cui destino si compie in un finale che si delinea drammaticamente obbligato, che, di certo, non conosce vincitori e, forse, nemmeno sopravvissuti.
Pasquale Attolico