La settimana sportiva: l’analisi di Bari – Padova

Nel giorno di San Francesco, San Nicola e Sant’Antonio si sono incontrati a Bari dove Francesco, il poverello di Assisi, fece anche tappa nel suo viaggio verso le Crociate. E mai come questa sacra manna nicolaiana fu provvidenziale.

Il Bari ha camminato sul ciglio del burrone fin dal primo minuto del secondo tempo. Prima di allora si era mosso con passo lento, quasi svagato, come chi non si accorge del precipizio che ha davanti. Poi, al quinto minuto, il gol del Padova ha spalancato il vuoto: un colpo netto, improvviso, come chi mette un piede nel nulla e non trova più appiglio.

Da quel momento, il Bari è sembrato precipitare. La squadra ha smesso di pensare, di reagire, di esistere. In campo si è vista una formazione svuotata, senza coraggio né anima, che ha avuto paura persino del pallone. Per più di settantacinque minuti i biancorossi hanno vagato come sonnambuli, in preda a una trance collettiva. La palla scottava, i passaggi più semplici finivano nel vuoto, e l’inerzia li trascinava giù.

Il Padova, di fronte a tale inconsistenza, è andato a nozze. Come tante altre squadre prima di lui – dalla Virtus Entella a Chiavari alla derelitta Sampdoria di inizio stagione – anche stavolta l’avversario di turno si è trasformato nel “Manchester City” del momento, pur senza averne né il talento né la grazia. Ma contro un Bari così, bastava poco per sembrare grandi.

Eppure, quando tutto sembrava scritto, è arrivato l’episodio che ha ribaltato la storia: Moncini è scappato via, Capelli lo ha trattenuto, e l’arbitro ha indicato il dischetto. Rigore ed espulsione. La trasformazione è stata un colpo d’ossigeno per una squadra che stava annegando. Non è cambiato tutto, ma almeno si è visto un sussulto.

Il Padova ha arretrato, ha perso smalto, e il Bari – ancora impacciato, ma vivo – ha cominciato a respirare. E quando Dorval ha messo in area un cross preciso come un disegno del destino, Cerri si è alzato di testa e ha infilato la rete. Il risultato si è ribaltato, ma non la sostanza.

Perché, mai come questa volta, il punteggio ha mentito.

Questa vittoria è stata bugiarda: ha nascosto il disastro tecnico e tattico di una squadra allo sbando. Il Bari ha continuato a sbagliare passaggi elementari, a lasciare praterie agli avversari, a mostrare una fragilità difensiva da far venire i brividi.

Guardando quella retroguardia, ci si è dovuti coprire gli occhi come davanti a un film dell’orrore. Scene così non si sono viste nemmeno ai tempi del “Canalone”, quando si giocava scalzi tra la polvere e il vento, o sui campi sterrati di periferia degli anni Settanta, dove il calcio era ruvido ma vero. Là almeno c’era orgoglio, dignità, una corsa sincera. Oggi no: solo disordine e paura.

Il centrocampo è apparso confuso e lento, incapace di filtrare o di costruire. Gli avversari hanno palleggiato indisturbati, affondando come nel burro. E in attacco, se non fosse stato per l’episodio del rigore e per la giocata di Dorval, ci sarebbe stato il nulla.

L’impronta di Caserta non si è vista. Nonostante le smentite della società, la sensazione è che la panchina dell’ex tecnico del Catanzaro resti appesa a un filo. Perché questa vittoria non può bastare a nascondere il disastro. Il Bari, oggi, è una squadra senza identità, senza equilibrio, senza convinzione.

I numeri sono impietosi: ogni avversario ha calciato almeno quindici volte verso la porta, in media. Cerofolini, sempre il migliore in campo, ha salvato il salvabile. Senza di lui, i gol subiti sarebbero stati molti di più. La coppia Meroni-Kassama non è da Serie B; Nikolaou, assente, non è mancato a nessuno. Gli esterni Dikmann e Dorval non possono reggere una difesa a quattro, e Gytkjær, il “colpo” del mercato, si è rivelato un fantasma. Non si regge in piedi, non regge un pallone: un giocatore irriconoscibile, forse persino peggiore di Puscas, come qualcuno ha sussurrato con amarezza.

In avanti si è vissuto di episodi, di improvvisazioni, di lampi isolati. Moncini, Dorval e Cerri hanno inciso, ma solo a sprazzi. A centrocampo, lentezza e confusione. Dietro, un’insicurezza che contagia chiunque.

E così, dopo centosettantasei giorni, il Bari ha finalmente vinto. Ma lo ha fatto nel modo più amaro possibile. È stata una vittoria casuale, figlia più dell’inconsistenza altrui che del merito proprio.

Il fischio finale ha liberato tutti, ma non ha consolato nessuno.

Sugli spalti, meno di diecimila spettatori hanno assistito a una scena già vista: la passione si è affievolita. L’entusiasmo del popolo biancorosso, che un tempo riempiva lo stadio come un rito collettivo, si è trasformato in un silenzio malinconico.

Un Bari così brutto non si vedeva da decenni, forse dai tempi di Giulio Corsini e chi ha i capelli bianchi può giurarlo.

Eppure, come scriveva Valcareggi, “non basta vincere, bisogna convincere”. E come ammoniva Machiavelli, “non si deve lasciare crescere un male per evitare una guerra, perché non si evita, ma si differisce solo a proprio danno.”

Il Bari, oggi, ha differito troppo.

Ora arriva la sosta, e dovrà servire a riflettere. Sul piano tecnico, fisico e mentale. Perché questo Bari, così com’è, è una squadra piatta, monotona, priva di carattere. Non basta cambiare un allenatore se manca la sostanza. Forse servirebbe un elettroshock, forse un miracolo, forse solo il coraggio di guardarsi allo specchio.

Pirandello scriveva che “la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”. Ma il Bari, oggi, sembra non averne più nessuno.

E se anche il fuoco del tifo continuerà a spegnersi, allora resterà solo la cenere.

Che ci si tenga stretti questi tre punti, certo — perché contano — ma si faccia presto qualcosa.

Perché il tempo, a Bari, ha smesso di essere un alleato.

Massimo Longo
Foto di ©SSC Bari
per gentile concessione

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