La Fondazione Teatro Petruzzelli riscopre e dà lustro al capolavoro händeliano “Giulio Cesare in Egitto” a trecento anni dalla sua creazione

“Händel comprende gli effetti speciali molto meglio di noi, e con essi colpisce come una saetta.” (Wolfgang Amadeus Mozart)

“Voi siete un asino, signore! Non meritate di possedere delle orecchie! Quando i posteri avranno perduto da anni il ricordo della vostra misera esistenza, pronunceranno il nome di Händel con un infinito rispetto!” (da “Farinelli – Voce Regina“)

Quando, nell’autunno del 1709, Georg Friedrich Händel giunse a Venezia per mettere in scena l’“Agrippina”, la sua seconda opera italiana dopo il “Rodrigo”, il suo successo era già all’apice, ma fu proprio l’incontro con il genere musicale più richiesto in quel periodo (come provarono le 27 repliche veneziane dell’Agrippina) che suggellò quella fama mondiale, che crebbe a dismisura nel corso degli anni successivi. Sulla scorta di tale innegabile consenso, nell’estate del 1723 Händel inizia a scrivere Giulio Cesare in Egitto, una nuova Opera su libretto che il fido Nicola Francesco Haym aveva estrapolato dal fortunatissimo testo di Giacomo Francesco Bussani musicato nel 1676 da Antonio Sartorio, adattandolo al nuovo contesto linguistico e culturale, soprattutto inserendo nuove arie e riducendo i recitativi.

L’opera ha la prima rappresentazione assoluta il 20 febbraio 1724 al King’s Theatre di Londra ed è baciata da un successo sì travolgente da concedersi ben tredici repliche, anche grazie ad un cast indiscutibilmente straordinario su cui il compositore sino alla vigilia del debutto forgiò la sua creatura dotandola di pagine di estremo virtuosismo vocale. In realtà, interpreti a parte, la partitura di Händel, come sempre estremamente ricca e variegata, era riuscita, forse come non mai, a mettere in evidenza la psicologia e i sentimenti di ogni singolo personaggio, scavando nella loro personalità e nella loro umanità, così da sposarsi perfettamente con un libretto, invero forse eccessivamente complicato a causa del rapido succedersi e continuo intrecciarsi di vicende amorose e intrighi di corte, in cui si narravano le vicende della Campagna d’Egitto del 48-47 a. C. di Giulio Cesare, giunto nel continente africano all’inseguimento del ‘nemico’ Pompeo, ove lo accolgono Cornelia e Sesto, moglie e figlio di Pompeo, che ne invocano la clemenza, immediatamente concessa, ignorando che il Re d’Egitto Tolomeo ha fatto uccidere il fuggitivo nella speranza di entrare nelle grazie dell’usurpatore romano, il quale, però, rifiuta sdegnato la testa del nemico offertagli dal comandante egiziano Achilla, che giura a Tolomeo di uccidere anche Cesare in cambio della mano di Cornelia di cui è innamorato. Cleopatra, primogenita sorella di Tolomeo, vedendo in Cesare un prezioso alleato per conquistare il trono d’Egitto, lo irretisce presentandosi come l’ancella Lidia, ma poi se ne innamora al punto da rivelargli la propria identità. Dopo il tentativo di Tolomeo di avvelenare Cesare, romani ed egiziani giungono allo scontro e questi ultimi sembrano avere la meglio, con Cornelia e Sesto nelle mani del bramoso Tolomeo, Cleopatra imprigionata e Cesare dato per disperso in mare; ma le sorti del conflitto vengono ribaltate quando Achilla tradisce il suo re, essendone stato tradito e colpito a morte, consegnando le sue truppe al redivivo Cesare, e Sesto, con l’aiuto della madre, carnalmente desiderata da Tolomeo, riesce finalmente a compiere la sua vendetta uccidendo lo spietato sovrano egizio. Così Cleopatra può ricevere da Cesare, amante amato, il regno d’Egitto, sancendo il ritorno della pace.

Oggi, trascorsi poco più di trecento anni dalla sua creazione, il capolavoro händeliano torna a noi grazie alla Fondazione Teatro Petruzzelli che nel cartellone della sua Stagione d’Opera 2025 ha mirabilmente inserito l’allestimento scenico del Teatro dell’Opera di Roma, in coproduzione con Théâtre des Champs-Élisées, Oper Leipzig, Opéra Orchestre National de Montpellier Occitanie, Capitole de Toulouse, che ha goduto della lettura visionaria di Damiano Michieletto. Ebbene, ci sia permesso di salutare la messa in scena del regista veneziano, qui ripresa da Diane Clement, come un capolavoro assoluto, una rappresentazione che, grazie a continui richiami simbolici, pittorici e finanche cinematografici, stimola lo spettatore ad una visione ‘altra’, contemplativa, onirica, se non mistica.

Fin dall’apertura del sipario sulla splendida Ouverture, scopriamo Giulio Cesare catturato, se non imprigionato, dalla tela di ragno di fili rossi (ma potevano anche essere vene ed arterie) intessuta dalle tre Parche, qui mutuate dalla spettrale rappresentazione che ne ha dato certa arte gotica ma anche dai prototipi creati dal filone cinematografico horror (sopra tutti il capolavoro kubrickiano “Shining”), che ne determinano la vita e le scelte, facendogli in seguito finanche presagire le drammatiche ‘Idi di marzo’ cui è destinato, con i congiurati capitanati da Bruto in tunica antica che con i loro pugnali squarciano il velo della parete tra palco e realtà, di fatto realizzando lo strumento dell’agognata vendetta di Sesto su Tolomeo.

Spostando l’ambientazione ai giorni nostri, con i protagonisti bardati negli abiti moderni di Agostino Cavalca, non solo si conferiva alla messa in scena una contemporaneità utile all’immedesimazione del pubblico, ma, anche e soprattutto, la si rendeva fruibile, se non assimilabile, al pari di una delle faide – familiari e non – di cui sono piene le nostre cronache quotidiane, con Cleopatra ‘vamp’ svampita ma determinata a raggiungere il suo obiettivo, Cornelia riluttante oggetto del comune desiderio violentata non solo fisicamente, Sesto imberbe adolescente alla ricerca della giusta vendetta ma non abbastanza ardito, Tolomeo ripugnante uomo di potere senza scrupoli, Achilla traditore tradito ed inutile pupazzo nelle mani del suo padrone, e, infine, lo spettro di Pompeo, sempre presente, sovrastante, come monito, esortazione, insegnamento che nessuno pare voler ascoltare.

In un quadro dall’animo ‘noir’, creato dalle essenziali quanto monumentali scene di Paolo Fantin, illuminato, per contrasto, dal bianco raggiante del disegno luci di Alessandro Carletti e vivacizzato dalle opportune coreografie di Thomas Wilhelm, l’immaginario michielettiano realizza una edizione maestosa, magnifica, imprescindibile, con momenti di rara bellezza e sprazzi di pura genialità, come i già citati fili rossi, le funeree Parche in perenne slow motion, la profezia dell’assassinio di Cesare, ma anche del suicidio di Cleopatra, le ceneri di Pompeo che ricoprono il palco, l’esplosione di coriandoli filanti, i giochi di specchi che ripetevano all’infinito i personaggi costretti tra le cornici del loro destino, e molto altro, tutti artifici che davano i giusti sussulti alle oltre tre ore di spettacolo.

Naturalmente, a farla da padrone c’era la irraggiungibile musica di Händel, con la bacchetta del Direttore stabile dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli Stefano Montanari assolutamente a suo agio nel traghettare il repertorio barocco nel terzo millennio, connettendolo con i tempi e i gusti del pubblico di oggi, così da plasmare l’Orchestra del Politeama, ormai sempre più consapevole dei propri non comuni mezzi, sino a consegnarci una esecuzione oltremodo rifinita, appassionata, incisiva, definitiva per la scrupolosa attenzione prestata alla potenza spirituale dello spartito ed alla sua capacità di scavare nell’animo umano, peculiarità che venivano infinitamente esaltate dall’ottimo cast che aveva le sue stelle di prima grandezza più sfavillanti nella Cornelia di Sara Mingardo e nella Cleopatra di Sandrine Piau, due interpreti di grandissimo spessore che sapevano donare alla attentissima platea una performance di raro impatto emotivo che giungeva a scandagliare le profondità dei rispettivi personaggi restituendone ogni fremente palpito, in questo seguite a ruota da Giuseppina Bridelli, che sapeva donare momenti di alto lirismo al suo Sesto Pompeo ‘en travestì’.

Il protagonista Giulio Cesare era affidato all’ormai habitué del ruolo Raffaele Pe, il quale, ancora una volta, dava prova della sua padronanza del repertorio e, nello specifico, di una partitura irta di ostacoli e difficoltà che l’apprezzatissimo controtenore riusciva a superare sempre brillantemente, dando ulteriore lustro alla sua meritatissima fama. Filippo Mineccia (Tolomeo), Davide Giangregorio (Achilla), Domenico Apollonio (Curio) e Angelo Giordano (Nireno) davano il loro preziosissimo apporto alla – nient’affatto scontata – riuscita di un’operazione che verrà annoverata negli annali come un’altra scommessa vinta dal Politeama barese.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla
per gentile concessione della Fondazione Petruzzelli

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