
Tempus fugit. E il tempo, a Bari, sembra scorrere sempre nello stesso modo: lento, pesante, e soprattutto sterile. Ogni stagione comincia con la promessa di una rivoluzione e prosegue (sperando non si fermi come i Freccia Rossa a Benevento) con la stessa sensazione di déjà vu. Cambiano i nomi, ma la sostanza resta immobile. Venerdì sono stati Castrovilli e Darboe a prendere posto dall’inizio, ma le lacune sono sempre le stesse, come se qualcuno avesse inciso nella pietra il destino biancorosso.
Il Bari di Caserta sembra costruito in laboratorio eppure fragile come cristallo di Murano. Dal 18 agosto ad oggi: dieci gol subiti, due appena segnati, un punto in cinque partite. Un bottino che non è allarme rosso: è già incendio. Caserta, certo, è responsabile delle sue scelte, ma i numeri – e qui non c’è spazio per interpretazioni – sono “cassazione”, inappellabili.
Le attenuanti? Il calendario difficile, il Palermo imbottito di ex giocatori di Serie A, il Modena che sogna in grande, il Monza retrocesso col paracadute, il Venezia idem. Eppure, diciamolo: non sono marziani, giocano su questa terra. Il Palermo è più forte, sì, ha speso e investito. Ma che la squadra esca da Palermo come Cenerentola a palazzo, piccola piccola, senza un’idea, senza un lampo, è un’immagine che stride. Nel primo tempo almeno qualche ripartenza, nel secondo un deserto pneumatico: Cerofolini il migliore in campo, ed è tutto dire.
E qui entra in scena la maledizione biancorossa, quella legge di Murphy che in riva all’Adriatico pare essersi insediata per sempre. Se qualcosa può andare storto, al Bari va peggio. Gli avversari arrivano in area come turisti in visita guidata, e puntualmente a segnare è sempre la “bestia nera” di turno. Venerdì Le Douaron, lo stesso che già aveva colpito un anno fa. Prima di lui Mendes col Modena il cui conto col Bari lo aveva aperto con l’Ascoli, e prima ancora Gibellini, De Rosa, Passalacqua, De Stefanis, Vantaggiato, Tiribocchi e una lista infinita di carneadi diventati eroi per una notte. Una sorta di club esclusivo: “Goleador per caso (contro il Bari)”.
Ma non si diceva, da sempre, che in B “noi siamo il Bari” inteso come “fatece largo che passiamo noi”, quasi a significare che non siamo mica una Carrarese o un Avellino? I fatti, però, dicono il contrario. Noi siamo semplicemente il Bari, senza virgolette, ovvero una squadra come tante da medio-bassa classifica e al diavolo il blasone dei trenta tornei in A e i 50 in B. Perché se il Bari giocasse o venisse costruito da “Bari”, dovrebbe, per definizione, stazionare sempre – e ribadisco sempre – tra le prime tre in serie B, giocarsela alla pari con tutte, Venezia, Palermo, Monza, Empoli, Cesena, dovrebbe vincere a Modena senza tanti fronzoli, e dovrebbe battere la Sampdoria senza tante storie evitando di andar loro a risolvere la crisi, cosa che probabilmente accadrà. Ed invece il Bari dimostra di essere solo il Bari, una squadretta senza pretese. Una squadra come la Carrarese o il Mantova per intenderci dalle quali è lecito attendersi una salvezza. Perché questi sono i fatti, non le considerazioni. Fa rabbia dirlo ma è così.
Certo, le responsabilità partono dalla testa e la testa dice che il Bari fino al 2028, per incorrere in rischi di impresa, dovrà galleggiare in mezzo agli oceani per cercare approdi sicuri e riparati evitando l’affondamento precoce con la tifoseria che continua a nutrirsi di pane e veleno, anzi per dirla alla Totò, “solo veleno”. Con tanta amarezza da ingurgitare.
La società aveva promesso una rivoluzione. E rivoluzione fu: via la colonna portante, dentro giovani dalle “Primavere”, giocatori di terza fascia, generosi ma fragili, attaccanti che segnano col contagocce e difensori che vanno in tilt al primo dribbling. Dorval e Dickmann sballottati sulle fasce, Nikolaou insicuro, Vicari mai decisivo. In mezzo al campo, confusione. Davanti, il vuoto.
E ogni anno la stessa storia: inizio torneo con la squadra fuori forma, fuori condizione, e la giustificazione del “tempo”. Ma perché mai il tempo serve solo al Bari? Perché gli altri sono pronti da agosto e i biancorossi no? Se si cambia, ci vuole tempo. Se non si cambia, ci vuole tempo lo stesso. Un paradosso degno di Kafka, se non fosse tragicamente calcistico.
A Bari l’entusiasmo è un boomerang: più lo si lancia in alto, più torna indietro colpendo in pieno volto. E chi, come me, con i capelli ormai bianchi, ha visto il Bari dal Novara al mitico “Alcarotti” o ad Alessandria al “Moccagatta” negli anni ’60 fino a Palermo venerdì sera, lo sa: la storia si ripete. Sempre. Come scriveva Leopardi nello Zibaldone: “Il vero stato dell’uomo è la noia e l’infelicità”. Applicato al calcio, significa: il vero stato del tifoso barese è la rassegnazione.
E allora eccoci qui, a settembre, già stanchi, già esausti, con la paura che anche quest’anno si lotti per una salvezza risicata. La squadra appare piccola, troppo piccola, e l’energia che aleggia sul San Nicola sembra più vicina a una maledizione che a un progetto sportivo.
Forse aveva ragione Eduardo De Filippo: “Gli esami non finiscono mai”. A Bari, quelli di pazienza e di sopportazione sembrano infiniti.
Massimo Longo
Foto di ©SSC Bari