Manipolazione affettiva ma anche bisogno di perdonare e perdonarsi, per essere liberi e ricominciare a vivere: ha debuttato al Teatro Abeliano di Bari “Vicolo Stretto”, esordio di Leonardo Piccinni interpretato da docenti, allievi ed ex allievi dell’Accademia dello Spettacolo Unika

Sul palcoscenico del Teatro Abeliano di Bari è andato in scena “Vicolo Stretto“, esordio alla regia teatrale di Leonardo Piccinni, autore anche del testo, ex allievo dell’Accademia dello Spettacolo Unika. Con lui docenti, allievi ed ex allievi: Rocco Capri Chiumarulo (direttore della sezione Teatro), Antonio Carella (docente di recitazione cinematografica) e Sara Cupertino (allieva del corso di teatro accademico). Aurora Lombardo alla scenografia e costumi, Francesco Loiudice autore delle musiche originali e responsabile del sound design, e Pierdomenico Minafra assistente alla regia.

La storia si svolge in un tempo non esattamente definito (probabilmente intorno alla fine degli anni Novanta).

Le voci del bosco e il rumore incessante della pioggia avvolgono la casa isolata come un involucro protettivo: il rifugio perfetto per Amerigo, ex militare in fuga da se stesso e dal mondo esterno, che qui ha trovato un limbo, un tempo sospeso, un non-luogo dove anestetizzare i fantasmi di un passato di cui non è fiero. In qualche modo i giorni scorrono, al riparo da una minaccia non meglio precisata, riempiti dalla visione ossessiva e quotidiana di vecchie videocassette: sempre le stesse, sempre più rumore di sottofondo, necessario a tacitare o almeno ad ovattare le dolorose voci interiori. È una sorta di apnea, non pace ma solo fragile tregua in una guerra che l’uomo non vuole combattere.

La routine che ottunde e consente di tirare avanti, è sconvolta dall’arrivo di Isabel, una ragazza in fuga (non sappiamo da cosa o da chi). Amerigo l’accoglie con gentilezza e premura, generoso nell’accudimento ma anche infastidito per l’alterarsi dei ritmi e delle abitudini consolidatesi negli anni in cui ha vissuto solo, con l’unica (occasionale e sporadica) compagnia di Sirio, che lo rifornisce periodicamente di cibo e sigarette.

La convivenza non sempre facile tra individui entrambi “selvatici” fa comunque nascere un rapporto simile a quello tra padre e figlia, anche perché Isabel ha più o meno l’età della figlia di Amerigo, nei confronti della quale l’uomo nutre un profondo senso di colpa e di vergogna. La fuggitiva diventa allora un’occasione di riscatto, di riabilitazione della propria identità di padre.

Ben presto però si passa dal desiderio di proteggere dal pericolo esterno alla manipolazione emotiva (“Non sei ancora pronta per andare via, io so quello che è meglio per te”).

Il rifugio diventa gabbia, l’affetto possesso.

In breve la paura della solitudine e il bisogno di perdono (dato dagli altri o concesso a se stessi) rendono il rapporto tra Amerigo e Isabel una prigione, una catena doppia fatta di compagnia necessaria ma tossica, in cui la riconquista della libertà da se stessi (per quella fisica basterebbe aprire una porta o scavalcare una finestra) è difficile e dolorosa per entrambi, pur nella differenza delle dinamiche interiori.

A scardinare questo precario equilibrio interviene Sirio, che conosce la storia di Amerigo e lo mette di fronte a una verità che l’uomo non vuole o non riesce a dire, offrendo ad entrambi la possibilità di una liberazione: amare lasciando andare, lasciar andare proprio perché si ama, in una lacerazione necessaria ma vitale.

I tre personaggi si muovono come sul tabellone del Monopoly, che è metafora, spazio simbolico e nello stesso tempo oggetto conteso, luogo in cui mettere in atto le strategie che consentano di raggiungere i propri scopi sconfiggendo gli avversari. E se all’inizio è Amerigo a decidere se, quando e con chi confrontarsi, scegliendo Sirio come unico avversario possibile, col tempo anche Isabel imparerà le regole del gioco e diventerà capace di battersi come gli altri due. Anche lei dunque comincerà a muoversi, destreggiandosi tra probabilità, fortuna e prigione, imparando a schivare quel Vicolo Stretto che nel gioco è una delle caselle meno redditizie, ma con il quale ciascuno deve fare i conti, secondo le proprie forze e le proprie fragilità.

Un’idea piuttosto interessante sottende allo spettacolo portato sul palco, scritto e diretto da Leonardo Piccinni al suo esordio nella regia teatrale. Ci sembra tuttavia che la drammaturgia contenga qualche incongruenza narrativa, che manchino cambi di registro e che alcune soluzioni (si pensi al modo in cui viene spiegato al pubblico il perché dell’esilio di Amerigo) siano un po’ didascaliche. Gli attori in certi momenti sembrano aderire a fatica al proprio personaggio e questo toglie loro scioltezza, quasi schiacciati e compressi in abiti di una taglia non adeguata.

Al di là di questo, si percepisce bene fin dall’inizio l’atmosfera claustrofobica dei legami tossici, la difficoltà di chiamare per nome i propri demoni, il bisogno del perdono che libera e dell’amore che rende liberi.

Sold out la sera del debutto. Caloroso e convinto l’applauso finale del pubblico.

Imma Covino
Foto di Alessio Girone da Facebook

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