
Bari, ennesima farsa: una società senz’anima e una squadra senza vergogna
Il Bari ha toccato un nuovo fondo. Ancora una stagione che puzza di mediocrità, disfatta e assuefazione al fallimento. Cambiano le facce, le giacche, le parole in conferenza stampa, ma il copione è sempre quello: grigio, deprimente, indegno di una piazza come Bari. Un’agonia sportiva che non conosce fine, uno stillicidio morale imposto a una tifoseria che, ancora una volta, riceve veleno al posto di pane.
Nel passato c’era almeno una logica, per quanto cinica: Matarrese svendeva, sì, la tifoseria non accettava il disfarsi dei migliori coi quali si sarebbe potuto costruire un Bari più competitivo, ma il club galleggiava. Oggi, con i De Laurentiis, si parla di “impresa”, ma Bari è trattata come una succursale in franchising, come un contenitore vuoto, senza ambizione e senza dignità. Il peccato originale – la multiproprietà – è diventato alibi e prigione. Un club privo di visione, guidato da chi non ama, non crede e non vive la città.
Un fallimento totale. Radicato. Sistemico.
Chi ha il coraggio di parlare di “salvezza” come obiettivo raggiunto mente sapendo di mentire. Bari non è Cittadella, non è Carrara. Bari ha uno stadio da 60.000 posti, un bacino da metropoli europea, un porto ed unn aeroporto internazionali, un’identità culturale e sportiva che non può ridursi al confronto con chi fa calcio con le sagre di paese. Il sorriso di Magalini, a fine gara, è stata la goccia. Quel sorrisetto, quella frase – “in fondo ci siamo salvati” – è stata un insulto. Il Bari si è salvato? No. Il Bari si è perso. E voi con lui.
Una città intera tradita.
Nessuno, nemmeno uno, ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità pubblicamente. Nessuna conferenza stampa. Nessuna scusa. Nessun programma. Solo silenzio, frasi fatte e retorica da discount. “Ci rifaremo l’anno prossimo”? No. Basta. Le parole sono finite. I fatti sono macerie.
Tre stagioni di decadenza: dalla promozione sfuggita in extremis due anni fa, al miracolo di Terni dello scorso anno, fino a questa stagione vuota, anonima, peggiore perché non c’è stato nemmeno un obiettivo. Il Bari ha smesso di lottare, ha smesso di provarci. E quando una squadra smette di provarci, smette di essere una squadra.
Il girone di ritorno, poi, è stato un funerale sportivo. Non vincere a Cosenza, a Cittadella, a Bolzano. Non serviva un miracolo, bastava decenza la stessa che hanno trovato la Salernitana, il Brescia e la Reggiana, formazioni mediocri ma con un cuore grosso così. E invece il Bari ha giocato 38 partite con 38 formazioni diverse, senza idee, senza anima. Allenatore confuso, rosa sbagliata, giocatori mediocri. Un’armata Brancaleone costruita con prestiti e promesse da discount. Il mercato è stato un disastro. Il progetto, un’illusione. La società, assente. E il campo ha parlato: prestazioni vergognose, indecorose. Non c’è una sola attenuante.
La gara di lunedì – paradossalmente la migliore – è stata solo la beffa finale. Il Bari ha giocato. Sì. Ma quando ormai era tutto inutile. Il che è ancora peggio. Perché vuol dire che si poteva fare, e non si è voluto fare. Si è scelto di fallire. Perché per 37 giornate il Bari è stato molle, inconsistente, spento. Altro che “giornata storta”: è stata una stagione interamente buttata via.
“Il peggior dolore non è soffrire, ma non sentire più nulla”, scriveva Pavese. E oggi i baresi sentono solo il vuoto.
La colpa è di tutti. Della proprietà, che tratta la squadra come un asset secondario. Della dirigenza, che ha fallito ogni scelta. Di Longo, che ha parlato troppo e male, e inciso ancora meno. E soprattutto dei giocatori, molti dei quali indegni di questa maglia. Perdere è umano. Ma sparire dal campo, no.
Bari è diventata la medicina degli altri anche se questa non è una novità, lo è sempre stata. Le squadre si rilanciano contro di noi e poi affondano. Perché non facciamo paura a nessuno. Non c’è più rispetto per questo nome, per questa maglia. Solo pietà o indifferenza. Come scriveva Pirandello, “la realtà non è quella che si vede, ma quella che si sente”. E noi abbiamo sentito solo umiliazione.
E basta con i paragoni con la Sampdoria miliardaria o col Cesena che coi ragazzini ha raggiunto i playoff. I soldi non bastano? Certo. Ma il nulla ancora meno. Il Bari non ha investito, ha vivacchiato. E ora ha raccolto il suo destino. Giustamente. Perché il calcio non perdona la presunzione.
Questo progetto è morto. Questa società è nuda. Serve un reset. Una rivoluzione. Una rifondazione vera. Non le solite mezze misure, non le solite promesse a vuoto. Bari, in B, merita una squadra che non giochi a fare la grande, ma che lo sia. Che lotti, che emozioni, che rispetti. Che restituisca orgoglio a una città che vive di calcio e non accetta più la mediocrità.
Il tempo è scaduto. E il popolo biancorosso ha già dato troppo. Ora basta.
Massimo Longo