
Bari, l’illusione perenne: tra Twin Peaks e la Beresina napoleonica
Come in un episodio oscuro di Twin Peaks, la creatura disturbante partorita dalla mente di David Lynch e Mark Frost, anche il Bari di oggi sembra abitare un universo parallelo dove logica, ambizione e dignità sono state risucchiate in una dimensione onirica e inquietante. E se Laura Palmer, avvolta dal mistero, gridava silenziosamente la tragedia del non detto, il Bari di oggi urla invece l’evidenza dell’abbandono emotivo, della resa morale, del disarmo tecnico. Un dramma sportivo che fa addirittura rimpiangere le sceneggiate di Lipatin o le impalpabili prestazioni di Markic, di Sergeant, di De Pasquale o di Consagra e Di Muri.
A Cittadella, non si è soltanto persa un’altra partita. È andato in scena l’ennesimo atto di un fallimento che non fa più neanche rumore, tanto è prevedibile. Il Bari è diventato il “resuscita-morti” del campionato sia di squadre, sia di attaccanti: dove c’è bisogno di un gol, di un rilancio, di una rinascita, basta attendere l’arrivo dei biancorossi. Il Cittadella non vinceva in casa da dicembre 2024 e non segnava in casa da due mesi, Palmieri ha segnato il suo primo gol da quando è a Cittadella e di esempi, sia quest’anno che nel corso dei miei 63 anni di cui posso arrogarmi il diritto di parlare senza essere smentito, ve ne potrei fare tanti. Da centodiciassette anni la storia si ripete, cambiando i volti ma non il copione.
L’assurdo è dover leggere sui social frasi come “tende gnore”, quando è invece l’evidenza a parlare: manca il cuore, manca l’anima. Perdere, in Serie B, è contemplabile. Ma farlo senza combattere, con l’atteggiamento svogliato di chi sembra giocare per contratto e non per passione, è intollerabile. Non è una questione di sfortuna o destino, ma di volontà. Di rispetto.
E mentre la tifoseria ingurgita l’ennesimo “Plasil”, rimedio amaro contro la nausea del disonore, la squadra in campo pare svuotata, un guscio senza vita. Squadre come Cosenza, Carrarese o lo stesso Cittadella non sono superiori sulla carta. Eppure hanno saputo trasformarsi in Inter da Champions contro un Bari impalpabile, dimostrando che bastano motivazione e spirito per fare la differenza. Il Bari, invece, ha scelto la strada dell’autoaffondamento. Scientifica. Programmata. E per favore basta con l’alibi delle assenze: anche con Maita e Benali sarebbe finita così.
In questo clima, l’allenatore Longo si è dimenato tra 37 squadre diverse, 37 moduli e 37 rotazioni infinite, adattando i giocatori ai ruoli sbagliati come se si trattasse di un esercizio di stile e non di sopravvivenza. Ma, al netto delle colpe tecniche, alla fine in campo ci vanno i calciatori. E loro, più che remare, si lasciano trasportare dalla corrente dell’apatia.
Il paragone storico è doveroso: il Bari sembra vivere una continua Beresina, disastro strategico e morale, in cui la ritirata non è nemmeno dignitosa. E se Napoleone almeno aveva combattuto, qui si scivola senza opporre resistenza. Nemmeno un sussulto d’orgoglio. La Waterloo biancorossa è costante, diluita in un campionato intero.
Il dato è impietoso: playoff alla portata, ma la sensazione – profonda, radicata – è che non li si meriti. Nemmeno l’illusione scalda più. Nemmeno la matematica, che ancora non esclude del tutto il miracolo. Ma la verità si impone chiara: non serve andarci ai playoff se lo spirito è questo. Con che faccia ci si presenterebbe a La Spezia, a Palermo, a Catanzaro o a Castellammare? Con quali ambizioni, con quale voglia, con quale orgoglio? Nessuna.
L’anno scorso almeno c’era “anima e core”, c’era Di Cesare, c’era un’identità pur in una squadra molto scarsa che ha richiesto ben quattro cambi tecnici. Oggi, invece, come scriveva Nietzsche, “senza anima, l’uomo è solo un animale addomesticato”. E il Bari è diventato proprio questo: docile nel fallimento, rassegnato dell’inconsistenza.
Non è solo una squadra mediocre: è una squadra scarsa. Lo è tecnicamente, lo è mentalmente. È un gruppo costruito in prestito, senza progetto, senza peso. Figurine scambiate, moduli cambiati come accordi in una canzone stonata. Per dirla con De André, “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”: qui nessuno può dirsi estraneo al disastro, né chi ha costruito questa rosa, né chi la manda in campo, né chi, pur indossando la maglia, si è arreso senza combattere.
E allora sì, vergognarsi è un dovere civico. Perché la sconfitta di Cittadella non è una caduta sportiva, è un atto d’accusa. È la fine di una stagione senza pathos e senza poesia. E come diceva Pavese: “L’unica gioia al mondo è cominciare”. Al Bari toccherà, ancora una volta, ricominciare. Da zero. O forse da meno. Ma stavolta, almeno, con un po’ di dignità. Almeno quella visto che si prospetta un’altra annata di prestiti via Napoli o prestiti di gente senza motivazioni.
Massimo Longo