
Un ritratto intenso di una vita dominata da un forte istinto di sopravvivenza, una sopravvivenza che si fa spazio “con ogni mezzo“ ma che, tuttavia, non rinuncia al momento sublime dell’ispirazione artistica.
The Brutalist, film diretto da Brady Corbet, Premio Oscar ad Adrien Brody come miglior attore protagonista, è ambientato nell’America del secondo dopoguerra e segue la vita di un architetto ebreo ungherese sopravvissuto all’Olocausto. Il protagonista è un uomo in fuga, alle prese con la sua carriera, il forte bisogno di affermarsi, di esprimersi nel mondo dell’architettura, ma si porta dietro il pregiudizio della razza, un pregiudizio del quale è impossibile sbarazzarsi; è facile, tuttavia, attraverso il film scoprire che la razza è solo uno scomodo involucro, racchiude le stesse pulsioni comuni a tutti gli uomini, anche a coloro che si fingono ipocritamente superiori.
L’architetto Làslò Tòth (Adrien Brody) esprime, attraverso la sua creatività, lo stile brutalista, che per i suoi elementi visivi, non è solo il cuore pulsante del suo lavoro, ma diventa una metafora della sua vita: dura, essenziale, segnata dalle cicatrici del passato, ma è proprio da quelle fessure, da quelle cicatrici indelebili che fa passare la luce intensa della sua esistenza e della sua potenza creativa.

La regia di Corbet è impeccabile e la fotografia richiama la freddezza delle forme e la essenzialità geometrica delle strutture del movimento brutalista. La sceneggiatura dipana, inoltre, i conflitti interiori del protagonista e il prezzo da pagare per il successo, ponendo domande universali su sacrificio, arte e appartenenza. Il premio Oscar Adrien Brody offre un’interpretazione straordinaria, che amplifica il senso di alienazione e lotta interiore del protagonista.
The Brutalist è un film crudo e ruvido, molto lungo, non leggero per il suo realismo e per il peso emotivo della sua narrazione e forse non è per tutti, ma a me è piaciuto. Mi è piaciuta la visceralità di un uomo sempre in bilico tra le pulsioni di un vitalismo che si confonde con un estremo spirito di sopravvivenza e l’ostinato desiderio di affermazione. Un uomo capace di scendere agli inferi e di librarsi nell’aria della visione, come in un vertiginoso andirivieni. Il punto è che tutto questo si compie in un mondo ottuso e brutale; l’architetto lavora il legno, progetta, inventa, frequenta prostitute, ma pensa continuamente a sua moglie e a sua nipote (rimaste intrappolate nella follia della persecuzione razziale prima e politica dopo), diventa eroinomane, spala il carbone, fa amicizia con un uomo di colore, viene accusato di molestie, finisce in un dormitorio, subisce violenza, investe tutto il suo onorario, ma non molla mai perché insegue il suo progetto e perché per lui “l’importante è la destinazione, non il viaggio” .
Penso che, in fondo, la storia di Làslò Tòth sia la storia universale di ciascuno di noi, con esiti meno eclatanti sicuramente, ma per me che mi soffermo, invece, sul viaggio e non sulla meta, essa racconta quanto sia difficile il percorso di tutte le esistenze che tentano di brillare, laddove la scintilla di un momento effimero, nel quale si racchiude il valore di una intera esistenza, anche la più banale, la più quotidiana, nasconde dietro di sé fatiche e dolori indicibili. Il nostro percorso di vita, che spesso finisce senza gloria, ci chiede tuttavia, di fare lo stesso duro viaggio in cui, non importa quante tempeste si devono attraversare, ci dice che dobbiamo restare costanti e affidabili, anche se non brilleremo mai, perché siamo stati solo “un viaggio sgangherato” e mai “una meta brillante”.
Vicky Berardinetti