In fuga dalle aspettative: “Freevola” di e con Lucia Raffaella Mariani, scuote il pubblico di Noicattaro all’Istituto Rocco Desimini

Accade di trovarsi in un luogo che ci ha viste bambine. Un luogo dove siamo state una noce di talenti e possibilità, pronta a germogliare, fiorire e fruttificare. Un luogo dove chiedersi qual è stato il giorno in cui il talento è diventato un complesso, la possibilità una vergogna, quando la pastoia della convenzione, del percentile e della norma ha inserito me nello stesso novero del resto dell’umanità. Sì, perché persone universalmente giuste non ne esistono e non ne sono mai esistite.

Ed è accaduto a me, nell’auditorium dell’Istituto Rocco Desimini di Noicattaro, dove ho frequentato l’allora scuola materna, dove ancora ricordo le feste di Carnevale, dove presentavo le recite di Natale, perché quelle di fine anno si tenevano nel cortile, dove la nostra Suora, abbastanza alternativa per quei tempi, contravvenendo alle compassate e irose colleghe, per accompagnare i nostri esercizi di ginnastica pensò di far comprare ai nostri genitori un piccolo stereo con il mangiacassette, per poter ascoltare anche della musica. Le pareti sono rimaste dello stesso color crema, anche le marmette per terra sono identiche, come uguali sono le scure tavole del palcoscenico. Chissà se già all’epoca c’era una buca laterale per la regia, o i pannelli matelassé ai lati del sipario.

L’occasione, peraltro, è ricca di significati: lo spettacolo “Freevola. Confessione sull’insostenibile bisogno di ammirazione”, di e con Lucia Raffaella Mariani, giovanissimo talento nostrano, preannuncia proprio una messa a nudo del sé femminile, di fronte alle proprie ansie e debolezze, in cerca di una liberazione. Il monologo è una produzione Trento Spettacoli, con il sostegno di Potenziali Evocati Multimediali, Semifinalista al Premio Scenario 2023 e questa recita è organizzata dall’Assessorato alla Cultura e dall’Assessorato ai Servizi sociali del Comune di Noicattaro.

Mariani si sottopone al pubblico, in un body nero contenitivo, come fosse una reginetta di bellezza di fronte a una giuria, la quale ha un applausometro: un pollicione per esprimere un “mi piaci”, due pollicioni per esprimere un “mi piaci molto”, un applauso per “ti voglio bene”, e una rosa rossa, in dotazione all’entrata in sala per “ti amo”. Il richiamo a una specie di valutazione reputazionale, come fossimo nell’episodio “Nosedive” di Black Mirror, è chiaro e evidente.

È qui che parte un flusso di coscienza, quel continuo rumore che non consente alle donne di essere semplicemente felici: l’eterna ossessione dei capelli, della pelle, dai brufoli alla cellulite, si scontra con il rassicurante reparto beauty della farmacia, che a quanto pare può curare malattie anche abbastanza gravi, ma non può vendere davvero la bellezza. Un mondo che ci vede troppo magre, troppo grasse, troppo in carriera, troppo nullafacenti, troppo costruite, troppo trasandate, troppo, sempre, di tutto, come declama America Ferrera, nel monologo in Barbie (coevo di Freevola). Il giudizio spietato delle feste in discoteca, dove “le fregne” piovono dal cielo, a farci sentire sempre e invariabilmente inadeguate. E poi, quando le fregne sembrano scomparire, ci si trova catapultate in un immaginario concorso di bellezza, magari Miss Italia, magari presentato da Pippo Baudo, in cui il Sacro Graal è la fantastica corona di strass, il sogno oltre ogni ambizione di carriera con la cui ossessione siamo state cresciute. Tutte, anche quelle che si sentono costrette a coprire le cosce con un ciclista contenitivo (quelle stesse cosce che sono al centro di tutti i pensieri nella pièce “La Merda” con Silvia Gallerano). Sullo sfondo, una costante: il “male gaze”, lo sguardo maschile che ci osserva, misura e giudica, fino a condizionare le nostre preferenze e abitudini.

Come fa tutto ciò a essere retto da una persona sola? Come si fa a non sdoppiarsi tra giudicante e giudicata, tra vittima e carnefice, tra madre e figlia, tra compassione e spietatezza. Come può tale sdoppiamento non operare anche nell’estremo, quando per compiacere qualcuno finiamo anche per annullare il nostro corpo e le sue volontà, assecondando finanche la violenza, mentre da sole ci diciamo “che cazzo stai facendo?”. Sono interrogativi che ci invitano a perdonarci, al fine di comprenderci davvero e nel profondo, ripartendo da sé, ogni giorno, verso nuovi complessi e nuove disperazioni, ma con la certezza di potercela fare malgrado tutto.

Per questo, infine, il salve di rose rosse copre le assi del palcoscenico. Anch’io, tornata bambina di fronte a quelle assi, ho avuto la possibilità di riavvolgere il nastro, e perdonarmi.

Beatrice Zippo
Foto di Carlo Maradei

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