Irriverente, fresca, femmina da morire, 11 lettere: “Emilia Pérez”. Stupisce e soddisfa il pluripremiato film diretto da Jacques Audiard con Zoe Saldana, Karla Sofia Gascón e Selena Gomez

Andare al cinema per vedere un film è un fatto normale, accade ogni giorno. Andare al cinema per vedere un film bello non è detto che accada sempre, ma accade. Andare al cinema per vedere una serie di film belli, contemporaneamente, nello stesso film, mette di fronte a qualcosa che potrebbe scomodare la categoria del capolavoro. E questo rischia di succedere guardando Emilia Pérez. Non a caso, nel pubblico di questo film si trova chi è convinto di essere lì per un thriller, chi pensa di andare a vedere un musical, chi vuole la commedia romantica e chi un’opera queer. Tutte e tutti insieme, appassionatamente.

E le conseguenze si vedono, dalle facce soddisfatte sui titoli di coda, e dalla pioggia di premi e nomination che il film sta raccogliendo nelle massime rassegne: 13 candidature agli Oscar, 4 Golden Globe su 10 candidature, 12 candidature ai BAFTA, riconoscimenti a Cannes, dove ha ricevuto 9 minuti di ovazione. Il film, diretto da Jacques Audiard, con una produzione francese, ha una sceneggiatura tratta dal romanzo “Écoute” di Boris Razon, vede protagoniste Zoe Saldana e Karla Sofia Gascón (doppiata deliziosamente da Vladimir Luxuria), e Selena Gomez coprotagonista.

La storia, principalmente ambientata a Città del Messico, è quella di Rita, bravissima avvocata, ma ultima ruota del carro di uno studio legale di grido, che viene contattata da Manitas, spietato narcotrafficante che vuole il suo aiuto nel cambiare sesso e vita, inscenando la sua morte con la moglie e i figli. Una volta riuscita nel suo intento, e diventata Emilia Pérez, richiama a sé con una scusa la vedova e i figli. Non solo, spinta da un incontro fortuito, fonda “La Lucecita”, un’associazione che aiuta le famiglie dei desaparecidos per colpa dei narcos. Sembra tutto perfetto, ma il passato sa essere una terra straniera, specie se ingombrante, e le carte sono fatte per essere sparigliate.

Una vicenda polverosa, di sangue e arena, che diventa scintillante grazie anche alla coproduzione Saint Laurent, e ai conseguenti costumi ultrachic e sfavillanti, che valorizzano le femminilità del film: quella abbondante e regale di Emilia, quella smart e asciutta di Rita, quella frivola e scintillante della moglie Jessi e quella discreta e sensuale di Epifania. La colonna sonora, di una storia di amore disperato come non se ne vedevano da “Moulin Rouge” di Luhrmann, è di Clément Ducol, con i testi di Camille: molte sonorità familiari e déjà entendu, ma in salsa mexicana, colpisce al cuore “Las Damas Que Pasan” in cui è immediato ravvisare “Le Passanti” di De André, a sua volta mutuata da Brassens.

Le cronache sono state pervase dalle critiche di parte del movimento LGBTQIA+, critiche abbastanza svogliate invero, su quanto la narrazione della transizione sia stereotipata e vista da un uomo cisessuale. Non solo, essa è vista come un processo deumanizzante della figura della coprotagonista, che grazie al nuovo genere diventa improvvisamente una pseudosanta.

Personalmente, le critiche sono pertinenti, ma la contestualizzazione è necessaria: tutta la storia ha personaggi che sono dei coacervi archetipici, tanto è vero che anche i messicani si sono indignati per la figura da narcos spietati che farebbero per colpa del film, che oltretutto è girato a Parigi, non un fotogramma si gira in Messico. La transizione altro non è che un espediente narrativo, di redenzione, e di persone che vanno salvate fino a quando non vieni messa in discussione tu. Negare la complessità di un personaggio è essere complici di visioni bidimensionali di un prodotto che di bidimensionale non ha nulla.

La visione queer sa aderire a ciò che critica: nell’uniformarsi alle polarizzazioni e ai pareri tagliati con l’accetta, va mutuata la frase del Talmud, secondo cui “non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo”.

Beatrice Zippo

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